domenica 7 marzo 2010

Luca Canali: il vero della “clinica” - Poesia e fotografia 3 - a Cura di Claudio Di Scalzo



                                    
                                                         “Accumulazione caotica” di Claudio Di Scalzo







                                        Vaghiamo ubriachi di benzodiazepina,
                                        automi che aziona non più l’energia di un progetto,
                                        ma lo stimolo dell’iminodibenzile in una tresca di pupille
                                        dilatate, acqua cupa di stagno in cui annegano le identità
                                        e ammiccano le omertà di subconsce rassegnate agonie.
                                        Ma una voce forte e normale, se si ode, le infrange in una diaspora
                                        di terrori riassommati che corrono a rifugiarsi in una solitudine
                                        di cuscini, di lame, di lacci per la soluzione finale.

                                        *

                                       Piango a dirotte lagrime le miserie del mondo,
                                       rispecchiate e contorte in un elegante rifugio di folli,
                                       tra illusioni di affetti, in rigide gerarchie di funzioni,
                                       di neutri gestori del morbo armati di terapie,
                                       di sigle su flebo, di laidi profitti, di brevi
                                       esecuzioni sommarie fra elèttrodi omologati dal tedio,
                                       se tramonta l’angoscia su una quiete spettrale o sul rictus
                                       di un clan di dementi avvinghiati agli uncini della norma.

                                       *

                                      Siamo qui ad un passo dalla morte,
                                      dalla deformità, dall’insania,
                                      ognuno con lo sguardo fisso in un punto dello spazio
                                      o sulle foglie oscillanti oltre i vetri in una tregenda d’inni
                                      di guerra ascesi dalla vita spegnendosi in un murmure di pietà
                                      tra i cavalieri disarcionati di questa disperazione senza approdi.

                                      *

                                      Odio gli aromi dell’estate
                                      brulicanti e lesivi nella bassa
                                      pressione instillata dai psicofarmaci.
                                      Rimpiango il gelo dei vicoli
                                      e dei cortili infervorati da una fede
                                      quando la mente sembrava una sciabola di battaglia,
                                      lineare e illusoria al pari di una rivolta di poveri,
                                      una pleurite secca curata con l’aspirina.

                                      (Luca Canali, Ancora dalla clinica, in Il naufragio, 1980)








Claudio Di Scalzo

CLINICA E CLONICA


La clinica è spazio letterale: delinea l’inattitudine umana a realizzarsi, l’inoltrarsi oscuro nella follia, è un vaticinare l’insensatezza e il disfacimento. Impone un codice di comportamento vòlto a contenere l’instabilità, è “quiete spettrale”, esistenza stagnante, spegnimento, dimenticanza o rapsodica ricordanza, deriva. Il suo linguaggio è una quest in vista di una ricognizione di sé stessi, un sopralinguaggio, un linguaggio per iniziati. Nondimeno, la clinica è luogo metaforico, profezia: in essa si cerca di afferrare il nesso tra l’individuo e il proprio destino, dunque allude alla vita stessa. Che può essere necessaria e differente, insinuando l’incertezza nelle convinzioni della ragione. La prospettiva metaforica in Luca Canali rinvia a un nichilismo che quasi rinuncia agli interrogativi fondamentali: qui viene ridescritto un umanesimo consapevole senza travestimenti né profetismi menzogneri. Non è possibile, in altre parole, che la condizione umana possa riscattarsi da sé stessa. E il rictus allora diventa lo stigma di una contrazione forzata non più solo contingente.

La medicalizzazione attraverso le benzodiazepine - nell’attacco verbale che qualifica significativamente la trasmissione del messaggio poetico - costituisce l’unica mozione all’azione di automi in “rassegnate agonie”. L’avversativo “ma” posto immediatamente dopo non cambia una situazione di fatto descritta nel continuum narrativo, introduce piuttosto un richiamo nell’auctoritas del codice della norma a un ordine che ricomponga la dispersione in una relegazione forzata dove incombe l’idea della vita percepita come dissoluzione. Ma la clinica in fondo - pur essendo “un elegante rifugio di folli” - rispecchia “le miserie del mondo”. Che altro è la vita se non un declino spirituale in un perpetuo illudersi nell’autenticità degli affetti, nell’esistenza della libertà, un soggiacere in qualità di vinti a revocabili vincitori come in un campo di battaglia? L’esistenza è uno sguardo da recluso oltre i vetri, non oltrepassabile confine verso la libertà. E l’estate stessa, evocata nell’ultima strofe, non è che il detestabile emblema dell’esplosione della vita, il cui senso resta infigurabile. Forse anche per questo il poeta nei versi conclusivi dice di rimpiangere il gelo dell’inverno, quella stagione - in un dolente rovesciamento di metafore - anteriore al leopardiano ”apparir del vero”.

                                                                    


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