mercoledì 29 novembre 2017

Karoline Knabberchen: L'Impiccato sul ponte di Kafka. Racconto trascritto da Claudio Di Scalzo dal Diario di KK, 1983



CDS: "L'impiccato sul Ponte di Kafka", 1983





Karoline Knabberchen

L'IMPICCATO SUL PONTE DI KAFKA

(racconto trascritto su file dal Diario di KK, 1983)

Sono un uomo la cui sorte è misera quanto il suo passato, se un passato l’ho mai avuto. Dacché mi ricordi infatti, vivo penzolando dalla giacca di costui, che è un ponte. Non conservo ricordo del prima: se fossi altrove, con lui e senza di lui, o se altro destino avessi se non dondolare , come impiccato, dalle falde del suo soprabito. Tant’è, vivo qui, oscillando con le gambe sopra il baratro, sbattuto dal vento che sferza costantemente questa gola, e s’alza a balzi, scotendomi come una banderuola. Potrei anche essere scambiato per quei pesci pagliaccio che abitano gli abissi all’interno di anemoni, e che in simbiosi con essi ondeggiano secondo come li spinge la corrente; non fosse che me ne sto appeso guardando il fondo anziché la superficie, e che su di me agisca tutta la pesantezza della gravità.

Non mi è dato sapere se l’uomo ponte sia al corrente della mia esistenza, poiché a causa del continuo svolazzamento degli abiti, riesco ad intravvedere appena un accenno di volto: talmente poco, che non potrei descrivere com’è fatto, né saprei riconoscerlo per strada, qualora mi capitasse d’incrociarlo.

Da questa ingrata posizione conservo altresì un’ottima visuale sui luoghi intorno. So bene che l’uomo ponte vive la condizione opposta alla mia: egli è ben saldo, con piedi e denti ficcati a fondo nel terreno. Ma non tutte le giornate sono uguali: capita ch’egli s’angosci e gema (sì, a volte lo sento piangere e disperarsi: è il vento a portar fin qui i suoi lamenti), poiché ignora tutto quanto gli è attorno. S’accorge del mutare delle stagioni e delle condizioni atmosferiche grazie agli altri sensi, perché la vista gli è preclusa: odora i forti profumi di resina e fiori a primavera, il gelo dell’inverno lo attraversa, cospargendo il suo corpo d’un soffice manto di neve.

Capitò un giorno un fatto straordinario: un viandante giunse fin qui. Sbucò come dal nulla, rimanendo per ore sul margine del bosco. Lo vidi avvicinarsi, certo animato da non buone intenzioni: lo osservai brandire per aria il suo bastone dalla punta di ferro, agitarlo sopra le nostre teste come una spada. Avrei voluto avvertire l’uomo ponte, metterlo sul chi va là: e tentai infatti (benché sapessi in cuor mio dell’inutilità del gesto), gridando con quanto fiato avessi in corpo, e spingendomi come su di un’altalena, sperando infine egli mi notasse. Fu tutto inutile, anche perché mi trovavo sempre naturalmente sottovento: era dunque improbabile che la mia voce lo raggiungesse in qualche modo, catturandone l’attenzione. Rischiai oltretutto di cadere, fui sul punto di mollare la presa e lasciarmi andare di sotto, stremato dallo sforzo dei movimenti e dallo sgolarmi senza risultato.





E avvenne poi quanto avevo paventato. L’uomo ponte, nel tentativo estremo di vedere chi lo stava attraversando, pungolandolo col bastone di ferro, si voltò precipitando entrambi nello stretto dirupo che sovrastavamo. Il balzo fu abbastanza lungo da permettermi di raddrizzarmi e sistemarmi sulla sua pancia: lo strinsi con prepotenza, ficcai gli occhi nei suoi per la prima volta, con sguardo di rimprovero per quel suo agire sconsiderato.

Egli morì dopo poco, col capo rivolto al cielo, senza una sola smorfia che lasciasse trapelare su quel volto un’emozione, un sentimento, fosse di dolore o di gioia per la liberazione.


Ora io, riverso a terra, con i piedi che lambiscono l’acqua ghiaccia del torrente che per tutto quel tempo avevo osservato dall’alto, non so che fare. Non esiste alcun sentiero, alcun appiglio, per cui sperare una risalita.





Nessun commento: