venerdì 14 gennaio 2011

Claudio Di Scalzo: La maschera funebre di Sergio Corazzini

                                     




                                 LA MASCHERA FUNEBRE DI SERGIO CORAZZINI



Febbre! quale valletto circuisci nella camera? Questo petto che tossisce? Febbre! pulviscolo dorato che rincorri ore fitte (oh, se grumo) del poeta Sergio Corazzini. Il lascito del poeta morto ventenne non è forse, per la poesia italiana, striatura d’allegoria simbolica per sfebbrarsi (inutilmente)? e poi spegnersi? L’ombra della Giardiniera Nera viene slavata nelle lacrime con naturalezza, con mancanza di difese: innocente intimità.
Amatemi, in modo inestricabile, nella ressa sgargiante del mio delirio. Amatemi. Siete miei amici quaggiù. Amatemi. Anche quando scolpirete sulla lapide le date che mi riguardano: 6 febbraio 1886 e quelle di un giugno prossimo del 1907. Amatemi fratelli, salvate per me il vento che mulinella sui tetti. Aria fresca che né mi sfiora i capelli né li sfiorerà in altre stagioni. Ricordate il crudo eclettismo degli Scapigliati?! Bien, qui è tutto diverso. Corazzini è coerente nella struttura tonale dei versi - nella figurazione che rimanda ad esperienze interiori dove non piove sabbia di sarcasmo. Corazzini - caro lettore di questa critica letteraria somigliante a una pulsione degradata nell’imitazione - ha consapevolezza, in tutta angoscia in tutta perdita in tutta umiltà - della contingenza esperienziale dell’uomo. Malato. In poesia malato. In poesia rapito.

A breve la luna
si piegherà sul grano,
nella periferia romana,
fra ali di azalee, lungo tratturi
ventosi - la cesoia della Giardiniera Nera
niente potrà per impedire
che pane sia addentato - che corsa
di fanciulli pieghi spighe -
sia benedetta la poesia che mi spinge
oltre la sete di una corsa,
di una pagnottella, di un viso
sano di contadino
con cui pregare assieme
alla sera.

Comprendo per visioni! Pensa Corazzini. Come la lucertola scopre la crepa con la coda sbattente. Ma anche sole abbacinante sulla pelle fredda.
Comprende per colori rubati nello specchio di camera, scrive della Morte perché ne sa la potenza. Spetta a lui, lui fanciullo-bimbetto-bischeretto, che la elevi a mito domestico, minimo, traccia che postula una vita futura. Il fanale, ho scritto Il fanale. La ricordo a memoria. Fanale e postribolo. Fanale vetri malchiusi. Fanale triste cantilena. Fanale breve agonia. Fanale buona carità. Più in là del fanale nella notte… Corazzini non va. Non è il nichilista gozzaniano. Che vive di stampe antiche e carezze su stoffe dannunziane in re minore. Il poeta ha un ritegno infantile davanti ai contrasti cromatici fra parole. Nessuna concessione alla gola spiegata. Labbra screpolate invece. Sensuale tattile olfattismo per sfiorare l’impercettibile dialogare del vivente (io vivente ancora, ma per quanto?, pensa il poeta. Già stanza di necropoli poetizzata per scialba archeologia critica?, pensa il Critico episodico) con l’invisibile. Dio. Oltre. Esigenze della psiche angelica.

Hai ogni forza per trascinarmi
Oltre la soglia Male-febbre
Ma anche mio corpo
Dono fu alla terra
Come le spiche falciate in periferia.

Nel baciare la mano fredda alla Giardiniera Nera (vigore fanciullo di vassallo poetico, festa anche della disperazione) la surreale allegria ironica della marionetta. Così la validità dell’esperienza lirica di Corazzini sopravanza le imitazioni francesi e l’acqua belga che da Bruges invadeva la sua casa. Con la stesso sforzo premiato, pensa Sergio, le donne partoriscono. In questo modo partorisco poesia sapendo di morire. Tutti saranno macchiati dalla mia parola partorita. Troppo presto. Cinque anni ho avuto per scrivere. Dal dialetto al velluto del simbolo come fiore vivo. Gora specchiante decadenze di altri. La nota sarcastica è mia. Mia. Ambivalenza sommessa. Esperienza melodica anche con la complicità del mare. Mio dolcissimo mare / sotto la luna bionda / io vedo dalla sponda / la nave lontanare… L’anfratto dell’unità totale, Corazzini, lo realizza con la facilità del bimbo che tiene il pennello dell’acquarello per la prima volta in mano. Uno che sa di morire per troppa luce, il Buon Sergio. Equilibrio tonale, medita Corazzini, con immagini e cadenze liriche appropriate. Fiato di ogni verde ombra perduta. Altro che mestiere!, Critico episodico. Non poeticizzarmi troppo.
Il suo è un simbolismo percettivo, penso. Lo penso e mi trovo a sfogliare le rose che ebbe sul guanciale. Appena la maschera funebre venne calcata.
Alone di fiato smarrito. Gesso sotto al cielo di aghi
Evocato da pianti degli amici. Pallore e mani di cenere
Altra luce d’opale non hai. Sembra un ex voto.
Il volto di Sergio. Scuote la mattina
Che ne custodirà il sonno.
Piccola visione bianca residua, piccola visione mortale per poesia da sublimare, che ne facciamo di te. In questa pagina anche. Fra gola e guancia il nostro ricordo.
Bocca rossa non più.
Volto bianco presto nero teschio. Nella bara.
A noi resterai in poesia e scriveremo che con il controllo dei sensi, caratteristica del tuo Crepuscolarismo, tra sottili eccitazioni e schematici calcoli fanciulli, hai attuato una specie di sospensione già ermetica: già rondine che sfiora il granaio della poesia del Novecento. Come altra rondine sfreccia sulle messi falciate in periferia. Ma sono dita, queste, dita nostre di ventenni, sulla polvere di quanto di te sopravvive. O Sergio mio.
Non altro.
Magro come cipresso eroso dal salmastro
Tendo il capo verso la rima del mattino
Tenue nuvola. Ritrarsi dalla realtà. Lasciatemi la congiunzione con il bacio immaginario che non diedi. Fratelli. Amatemi. Ritrarsi. Intensificare le emozioni. Le sensazioni soffocate (le soffoco distratto lieto vagabondo del mio Io) saranno frutto di uno stato patologico? Mi chiedo da scaltro Critico episodico. Il Dannunzianesimo ridotto a fila di formiche da gregge in fila che era, sarà un espediente o lo scadere dal positivo vitalistico nel suo contrario? Minimalista. Ahi parola contemporanea. Troppo.

La morte è compimento. Pensa Corazzini. Il macabro sta a D’Annunzio. A me Morte nuovo clima. Fuggo sbandata lepre verso il melo fiorito di Gesù. Ma in altre poesie, non le ricordo fratelli, ho accostato la Giardiniera Nera a fiori carnosi. Ah gli Amanti suicidi. Piansero rose / petali tristi sopra i corpi belli / Egli, confusi avea i suoi capelli / con le chiome di lei, fresche odorose.

Con che cosa mischio i miei riccioli, fratelli, con che cosa il mio fiato, Critico episodico?
Con l’erba velenosa della paura. In questo momento. Con l’ala nerastra impigliata nel turbine dei rami portatrice di oscurità.
Se guardo in basso, sfuggo l’intrico, ma ombra è sangue. Superba nicchia allucinata. Che diluisce con fiori, aggregati stabili della mitologia da camera per morte certa. Fiori associati a una dialettica cromatica elementare. Rigoglio floreale sbiancato pallore della malattia. Leggiamo Il Bacio. Bacio di morente / sulla bocca permetti? Su quella bocca ardente / che pare un fior di sangue / trionfante tra i mughetti… Vago lugubre corale profumo, penso, sensualità che esorcizza l’apparato figurativo. La mesta posizione del malato nel letto. Il suo sesso moscio. Negato all’allusione di modeste erezioni. Manina bianca mi sfioro. Tutto è neutro. Son uscito dal mondo dei sensi. L’eros è smaterializzato. Scrivo. In Corazzini. Brivido pudico.

Come sole che ondeggia sotto arcate. Frammisto. Assenza di corpo.
Continuo stupore. Lasciatemi qui come un giglio. Calpestato.
Frugatemi anche nell’umore che verso.
Come sole frammisto sotto arcate.

Ai margini di ogni sensazione. La poesia Dolcezze. 1904. Pulsioni smemorate. Almeno l’orina che piscio è chiara? O gialla rossastra come le messi che tagliano in periferia?
Dolcezze umiltà fanciullesca. Disgrazia spaventosa di amare e saper di morire. Prosodia come cadenza languida. Melenso anche nella pietà religiosa.
I giorni senza Sergio saranno come una conchiglia vuota, dice uno dei presenti. Mentre fissa piangendo la maschera funebre rovesciata.
Gesso radice di quanto perdura immobile.

Qualcuno pensa che dovrebbero posarla in chiesa. Come reliquia pregarla. Questo mormora l’eco di un dolore avido e sordo. Nei petti degli amici il gesso ha la valenza del concime su prati novelli invasi dall’autunno.
Qualcuno scrive qualcosa di simile con un lapis.
Io Critico episodico, lo vedo, forando gli anni a ritroso. Sono cento. Scrivevo nel 2007. Scrivo nel 1907! Ma non reggo la vista della maschera funebre.

Però l’idea di posare la maschera del morto poeta in chiesa è santa e giusta.
Ripenso alla Chiesa abbandonata. Mura della fede che galvanizzarono la sua vita spirituale. Scrivo che in questa poesia avverto una forma di stoicismo etico-lirico che gli consente di evocare l’ombra della morte che si va allungando sul suo corpo malato. Che lui voleva malato anche quando non lo era.
Il sole per me è sempre stato autunnale.
Mormora Corazzini. Sole sbiadito ghirigoro.
Il vento che esibiva il nome di quanto scalda e dà vita
A me giungeva freddo. Emarginato dall’oblio
Del bene che non mi volevo.
Desiderio di morire stando sano?
Brivido prova il poeta.
Ricorda la sonata in bianco minore.
C’è sole nell’orto, c’è il sole / - È un povero sole che ha freddo, non senti? - Che piange le sue primavere…

Il sole in questa poesia non è elemento coreografico da sfondo. Ha proporzioni metafisiche. Visione tradotta nell’eccitazione di un pensiero concreto e immaginativo.
Come il gambo della foglia che sta al tronco, mi suggerisce la maschera funebre di Corazzini.
Parli a me da morto. In maschera. Com’è possibile?

Tutto volsi, aggiunge la maschera, o sono io che parlo a me stesso: in tremula figurazione esistenziale. Leggi Follie. E poi lasciami dormire nel gesso, nel libro che scrissi, e dove sono che neanche più so dove. Requiem. Grazie.

In Follie,… lutto per le mie chiacchiere. Solenne punizione che Sergio s'infligge nella flora. Le foglie cadenti sono un’allegoria che rappresenta il decadimento spirituale. Le speranze del poeta sono fuggitive. Naufragio dell’autunno perenne. Spiove sulle palpebre abbassate di Sergio.
Eppure offre brividi, il mio poeta ridotto a gesso mortuario: il suo stil novo, qualità arcaica della lingua usata, speranza morente associata alle foglie, proseguirà nel sonetto d’autunno. Trasmutando le trecce emozionali in qualcosa di reciso. Inaridito. Chiacchiera risucchiata.
Anche la mia sul poeta lo è.
L’anima poi che nell’audaci voglie / si disfece con gli ultimi rossori / della sua giovinezza, in foglie e fiori.

Tutto questo gorgo torna nella poesia Dopo.
Peduncolato corollato ritagliato pescato biancorato fruttato lacerato Sergio Corazzini. Giardino psico-sensuale eleva questa poesia.

Mi tornarono in mente mentre scrivevo questi versi, dice Corazzini ai presenti, tra un colpo di tosse e l’altro, laghetti stagnanti, distese allucinate, oggi giardini sonnecchianti da guanciale. Che fa rima con pitale. La mia orina guardate: è sanguinosa o chiara?
Non basta il sangue che esce dalla bocca! Che bisogno c’è di orinare scuro. Rosso. Giallo maturo. Restino gialle le messi falciate in periferia.
Vero fratelli?

C’è stata evoluzione anche nella mia poesia, dice la Maschera funebre al Corazzini moribondo ma pur vivo: parlane anche ai tuoi fratelli, a te stesso, al Critico episodico che ti ascolta.

Non ne ho voglia.
Lo faccia chi mi vede ansimare ingessato.

Reggi nel bagliore di questa scrittura la tua presenza. Poeta. Per me unico. Raggrupperò questi tuoi ultimi versi. Tu sei un me stesso che scrive, niente è finito finché sarai in me, della vita in poesia, mio infinito Sergio aureolato.

Ah l’enfasi! Che azzera la serietà della critica letteraria. Ah l’enfasi che regge il candelabro ostinato in questa camera per corpo consunto alla fine.

Musica verbale. Catene di immagini. Merletti di cristallo intuitivo. Pulviscolo di oggetti simbolo venite a lui in liquido processo.
Quanti ne contengono le sue lacrime!
Il giardino diventa l’elemento puramente melodico per custodire l’angoscia del poeta.
Paesaggio lirico ramingo. Sotto un cielo convesso a imbuto che soffoca i suoi polmoni. Leggete Invito. Corazzini regredisce in una terra, ahi come pungono queste zolle, dominata dall’algida Giardiniera Morte. Mai lieta di scordarsi di lui.

Oltre la fine, afferma la Maschera di gesso, troverò la mia dimensione definitiva di poeta. Il malandato me stesso agonizzante nel letto non lo sa. Ma io sì. Sarò forma rigenerata. Qualcuno scriverà stoltamente del mio correlativo oggettivo, anticipatore di Eliot, perché lego sentimento e figurazione. Come se avessi un disegno simbolico in testa. Stolti. L’agonia cancella ogni tecnicismo e poetica a priori. Ero analogia e aggregato simbolico senza sapere di esserlo. Cortesia! accostatevi alla bara. La mia bara. Simbolo neh! Tomba. Lapide. Coperchio sul firmamento delle parole trapassate.

La morte per Sergio ha infinite possibilità. Da donargli. Un regno. Mondo oltre. La terra. Orfica purezza. Basta scorrere Elegia.
Vita immagineremo in una chiara / Morte…
La chiara morte diventa auspicio di ultimazione. Passo verso il turchino del disvelamento. Come un sonnambulo che sfiori un muro. Avrò la maschera di gesso come fanale, andando verso la soluzione a ogni sofferenza. Anche della morte per tisi. Avrò la vertigine muta del tutto che mi viene spiegato. La maschera sarà il mio fanale? Lo spero. La maschera che prenderete dal mio viso senza più respiro. A dopo.

Morte che ti salva dalla condizione di fuggiasco dal dolore e nel dolore, per offrirti il pianeta eterno della realizzazione, anche nel linguaggio, attorno al bene infinito di una Grazia. Quella divina. Nei poemetti in prosa del 1906 trapela questo desiderio di avvicinarsi alle meravigliose sembianze di qualcosa che da vivi, sani e malati, si può soltanto intuire.

Cosa fai Critico episodico? Piangi? Piangi come faccio io che sto morendo. Ma tu questo odore malevolo di piaghe cesserai di annusarlo appena avrai finito di scrivere, o no?
Però se vuoi piangere, anche bagnando la maschera di gesso, non ti trattenere.
Succo di lacrima.
Perfezionante dell’ora perenne la pergamena del vissuto
Vibra la purezza dell’eternità.
Altro che respiro cadenzato trattiene l’io, si erge intatto (nella lacrima versata)
Per pietà del poeta della poesia che scrisse.
Di ogni amore che soffre - tu ami qualcuna, Critico episodico? Hai un amore
Che soffre da qualche parte? – O ha sofferto ed è morta?
Piangi allora che troverai risposta
Emersa dalla nebbia
Dall’enigma del perché si soffre
O soffre chi si ama.

Nel Soliloquio delle cose, rileggilo, Critico episodico, racconto l’angoscia di esse, colte nel momento in cui terminano il lungo rapporto di empatia che le legava alla sfera dei sentimenti umani.

In questo poemetto di Corazzini le cose ricadono lentamente nel vuoto di persistenza gratuita e inanimata. In una specie di assurdità cosmica se non esistesse un Dio. Ad accogliere Corazzini, la sua maschera fanale per raggiungere la destinazione eterna, e ognuno di noi che scrive-legge-muore.

Che ha a che fare questa intuizione con tutti gli altri decadenti francesi? Poco o nulla. Ungaretti ne prenderà un lembo, con altri esiti, quando scoprirà il sacro e la fede.

La Maschera di gesso aggiunge: proseguirò fino all’ultimo su questa implicazione di speranza. Nel sonetto della Neve cade ella per rigenerare. Vita umana torpore invernale, collaborazione del seme alla rigenerazione.

Maternamente coronò la sera / l’offerta pura e il muto cuore assorto / in ricevere il tenero conforto / quasi nova fiorisse primavera.

Cala il pomeriggio nella stanza del malato. Sembrano una ragnatela di vene azzurine le mani che Corazzini in grembo tiene. Tossisce lentamente. Sfoglio Piccolo libro inutile e Libro per la sera della domenica (1906). Poesie scritte un anno prima del sospiro finale.

Lunga scia di brevi versi in questa domenica, mia, che scrivo, lettura in amaritudine su quanto resta della stagione. Fattore di mia gioia la scoperta mia nullità.
Ti prego mio Signore con Sergio accanto. Cosa sto rubando a scrivere della sua poesia? Voglio essere con tutti i miei anni semplice come il fanciullo chierichetto a Vecchiano in S. Alessandro con Don Gino prete. Questo voglio.

La maschera di gesso funebre mi suggerisce di leggere tutta d’un fiato Per organo di Barberia.
La scrittura del poeta malato, tisico, è modernissima. Fonda temi, simboli, allusive tonalità che sono un evento unico nella poesia: suggello degno per accettare la morte come occhiata di Dio, benevola, su chi scrive di poesia morendo e chi la commenta. In compagnia di un altro calendario (il 2007), di un poeta tossicchiante, e della sua maschera funebre.

Compresa l’evocazione di una condizione totalmente alienata nel mondo moderno. La “piccola casa / provinciale che dorme”… simboleggia l’indifferenza del mondo al destino del suonatore d’organetto.

Accanto a Corazzini che si è alzato seduto sul letto come una molla. Afferra convulso La morte di Tantalo. Me la recita. La Maschera di gesso funebre è ancor più fissata nell’aspettativa di una verità. Assoluta.



La morte raggiunta attraverso l’azione purificatrice dell’amore offre un’altra persistenza. Infinita. In altro luogo. Bevemmo l’acqua d’oro / e l’alba ci trovò seduti / sull’orlo della fontana / nella vigna non più d’oro.

Quanto è residuo dorato cala sulla fronte del poeta assopito. Sulla Maschera funebre. Sui volti degli amici fattisi silenziosi. Ombre devote. Ombra d’ottone. Sulla maniglia della porta che premo per uscire da questa stanza. Persuaso a non dire addio al poeta. All’ombra sparente che ho conosciuto. Perché sta, ora, essenza, sul dromedario del cuore in fuga. Del Critico episodico.

Claudio Di Scalzo



°°°


"La maschera funebre di Corazzini" comparirà nell'annuario OLANDESE VOLANTE nel dicembre 2011, inserito nell' "Autoantologia Scalza 2" la cui prima parte è stata pubblicata nel settembre 2009 sull'annuario TELLUS 30 "Nomi per 4 stagioni". L'annuario TELLUS nel 2009 ha cessato le pubblicazioni).  CDS




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