sabato 20 febbraio 2010

Claudio Di Scalzo: Volti Fantasmi Colori Meidosems di Henry Michaux. Mostra Galleria Peccolo ottobre 2001












Henri Michaux

VOLTI, FANTASMI, COLORI, MEIDOSEMS

 Mostra alla Galleria Peccolo ottobre 2001


Si conduce una vita sregolata di volti, si delira continuamente per i volti.
Appena prendo in mano una matita, un pennello me ne viene, uno dietro l’altro, dieci quindici venti sulla carta. E per lo più “selvaggi”. Sono io tutti questi volti? Sono altri? Da quali profondità scaturiscono? Come si può essere tanto insensibili da fare un preciso ritratto di qualcuno e vedere un volto composto dei suoi tratti? Un volto! Il volto di un uomo, di una donna mi dà quasi sempre un colpo, un colpo profondo nell’intimo della mia vita. Non so dove e come mi colga. Ma ciò che in me è colpito, e che reagisce oscuramente e con sforzo, m’impedisce di dominare i tratti del volto che mi sta osservando e di dominare me stesso tanto da poterli seguire tradurre in un disegno obiettivo. Chissà con quale dei miei strani volti questa figura si confronta in me, quando brancola nel buio e cerca di essere capita? A volte la ricostruzione dei tratti di un volto mi riesce, ma in fondo ciò ha poca importanza perché io stesso mi sono così annientato per giungere a questo risultato, ho annientato me e la mia propria vita, che anche quella del ritratto, per reazione, si annulla e diventa pietra.

C’è un preciso fantasma interno che si dovrebbe poter dipingere, non il naso, gli occhi, i capelli che si trovano esternamente, spesso come rivestimento. Un essere fluido che non corrisponde alle ossa e alla pelle, che noi subito vediamo – amici, nemici, persone amate, genitori, conoscenti – e quindi subito riconosciamo l’aspetto della persona in quel determinato momento, non due minuti più tardi: una qualità che diventa visibile a tutte le persone sensibili fuorché – che disdetta! – ai pittori.

Quindi se mi piacessero gli ismi e avessi l’ambizione di mettermi alla testa di un gruppo di persone, potrei lanciare una scuola: il Fantomismo (o “Psicologismo”).
Il volto ha dei lineamenti. Io me ne infischio. Dipingo i tratti del suo Double (che non ha bisogno assolutamente di narici e può avere un reticolo di occhi).

Io dipingo anche i colori del Double. Non è necessario il rosso sulle guance o sulel labbra, ma al suo posto giusto, dov’è il suo fuoco. Quindi, metto l’azzurro sulla fronte, s eci vuole (infatti, ho dimenticato di dire che da qualche tempo pratico lo psicologismo). Questi colori sono l’anima dell’individuo, rendono ciò che è bello e ciò che è brutto, l’infinito variare dei suoi atteggiamenti. Certo, talvolta dei semplici caricaturisti hanno indovinato i tratti intimi veri; infinitamente più di rado, alcuni pittori (sebbene con molte altre preoccupazioni in testa) hanno potuto riprodurre alcuni colori di questo Double, ma essoi hanno tenuto presente soprattutto il proprio temperamento o i problemi pittorici. Io vorrei dipingere i colori del temperamento degli altri. Ciò significa creare il ritratto dei temperamenti.

Per lo più io comincio con calma, deciso a continuare con calma; ma o la carta assorbe troppo rapidamente o si è formata una macchia imprevista o si è verificato – come può capitare – un incidente d’ordine materiale: ciò mi fa impazzire di rabbia (a questo sono predisposto, anche se nella vita normale riesco a frenarmi).

Dunque mi arrabbio pazzamente perché vedo la carta assorbire troppo rapidamente o perché a causa della macchia mi allontano da quanto mi ero prefisso e questa pazzia trova in me quasi subito l’eco di mille pazzie che prorompono dal mio non del tutto felice passato. Un’eco che subito viene rafforzata da nuovi errori materiali commessi nel mio stato di sovreccitazione e dalle cose cancellate e ricancellate, che non posso evitare: una risonanza gigantesca che subito si solleva da ogni parte. La mia anima, che è divenuta folle e ha perduto di vista il suo primo oggetto, si riconosce improvvisamente nella carta segnata di nero: riconosce la folle testa che ad essa corrisponde; non rimane che tracciare qualcosa qua e là. Ecco, dunque, una testa pronta che, contro il mio volere, è molto espressiva e completamente diversa da come l’avevo prevista. Un ritratto è un compromesso tra le linee di forza che sono nella testa del disegnatore e la testa di chi è ritratto. Il tratto definitivo è il risultato della lotta. Determinati tratti sono rafforzati, altri cancellati e alcuni scartati. Vorrei poter dipingere le correnti spirituali che circolano tra le persone. Dipingerei volentieri anche l’uomo al di fuori di se stesso, il suo spazio. Perché il meglio di lui non dovrebbe essere comunicabile con la pittura? (Traduzione di Maria Bruno)








Claudio Di Scalzo

QUEL LEGGERO TRAIT D'UNION FRA PAROLA E IMMAGINE


Henri Michaux scrive nel 1938 “Plume”. E questo mentre in Europa avanza la pesantezza cadenzata dell’acciaio guerresco fascista. Per capire le movenze del Michaux scrittore e nel contempo la delicatezza del pittore con le sue chine e i suoi acquarelli, tanto simili al morbido rotolare delle gocce sui vetri, bisogna ricordare quel personaggio surreale che frequenta il sogno conservando per sé gli umori di una realtà capovolta eppure plausibile. Michaux pittore si fa imprestare dal personaggio la leggerezza della piuma per la punta dei suoi pennelli. In questo modo, e usando il suo IO come trait d’union, riesce a dipingere scaglie della mappa – estremamente vasta perché universo parallelo – dove la parola e l’immagine si incontrano, si sfidano, si uniscono.

Un trattino ardito come un acrobata volteggiante sopra al fondale che, da sempre, segno pittorico e parola hanno in comune.

Questo IO provvisorio di Michaux, invadente ed aereo, vince la scommessa sullo sposalizio, da tanti ricercato e da pochi raggiunto, fra la pittura e la scrittura. Ma l’artista ha un carburante speciale, un miscuglio di tecniche orientali, di Mexalina, di psicologia del profondo. Appaiono dunque i segni informali, formidabili girini di creatività, poi gli scatti a strappi delle matite imbizzarrite, poi le improvvise curve di sinuose pennellate in sboccio: quasi il ribollimento ritmico di una tensione creativa primaria che vorrebbe oltrepassare, proprio perché episodio di un IO vocato interpretare e coniugare esperienze diverse, il riquadro della tela e della carta. Michaux riesce a consegnarci immagini che evocano quanto non può venire scritto perché il vocabolario non ne contempla il lessico e si fa aiutare dal fantasma della scrittura quando i suoi turbamenti e viaggi non può disegnarli.

Gli acquarelli, i Meidosems, tanto pungenti ed elettrici, le macchie segniche che si disfano in rotazioni bizzarre, sono tutti pulviscoli di quasta rappresentazione. L’IO, trait d’union, fa vivere ai due amanti, IMMAGINE-PAROLA, uno stato di continuo movimento che può infischiarsene dei termini di spazio e di tempo, proponendo uno degli esiti più alti e suggestivi dell’arte Autre.
Ecco che non c’è da stupirsi se chi si trova davanti ai dipinti di Michaux vede immagini sul punto di diventare parole e fantasmatici volti che stanno per tornare all’infanzia.









BIOGRAFIA TRA PIUME E TARLI


Henri Michaux nasce a Namur in Belgio il 24 maggio 1989. Quando nel 1927 comincia a disegnare, si sente come un tarlo che stia mettendo piume inutili. Compie viaggi con la stessa facilità con cui l’insonnia prepara le fantasie a occhi aperti. Lo vedono in America del Sud, in Asia, in Africa del Nord. In ogni luogo trova qualche santuario di parole da violare. Pubblica “racconti di viaggio”. E’ prodigo anche quando, supino su qualche letto di fortuna, si rassegna a non avere ascoltatori. Gli abitanti che incontra sembrano naufraghi della sua memoria, che si divertono a inventare per lui accoglienze che non ci saranno. Ricorda i profumi e li cataloga secondo i mesi. Il suo spazio pittorico è la dimora dove ospita tutti gli incontri più o meno dissipati. La sua prima mostra avviene nel 1936. La moglie, che perderà nel 1948 per un incidente, ritorna nei suoi acquarelli. Se qualcuno gli chiede come, risponde che si aspetta lacrime colorate dalla morta. Negli anni cinquanta si stabilisce definitivamente a Parigi. La “scrittura calligrafata”, che pretende di avere inventato, si riproduce con liquidi torbidi e rischi di desolazione su molteplici tele. I suoi numerosi libri vanno di pari passo con la prodigiosa estensione dei segni. Forse la sua frenesia appartiene a un unico grembo creativo. E difatti, provando la mescalina, è risucchiato da cunicoli molli e protettivi. Le gallerie e i musei si appropriano di questa continua risorgenza segnica, così come le biblioteche catalogano i suoi titoli. Muore a Parigi il 19 ottobre 1984. E il suo atelier, visitato dalla luce radente del mattino, sembrerà un presepio abbandonato, dopo. 







(dal catalogo della mostra ottobre 2001)




  

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