CDS: "L'impiccato sul Ponte di Kafka", 1983
Karoline Knabberchen
L'IMPICCATO SUL PONTE DI KAFKA
(racconto trascritto su file dal
Diario di KK, 1983)
Sono un uomo la cui sorte è
misera quanto il suo passato, se un passato l’ho mai avuto. Dacché mi ricordi
infatti, vivo penzolando dalla giacca di costui, che è un ponte. Non conservo
ricordo del prima: se fossi altrove, con lui e senza di lui, o se altro destino
avessi se non dondolare , come impiccato, dalle falde del suo soprabito.
Tant’è, vivo qui, oscillando con le gambe sopra il baratro, sbattuto dal vento
che sferza costantemente questa gola, e s’alza a balzi, scotendomi come una
banderuola. Potrei anche essere scambiato per quei pesci pagliaccio che abitano
gli abissi all’interno di anemoni, e che in simbiosi con essi ondeggiano
secondo come li spinge la corrente; non fosse che me ne sto appeso guardando il
fondo anziché la superficie, e che su di me agisca tutta la pesantezza della
gravità.
Non mi è dato sapere se l’uomo
ponte sia al corrente della mia esistenza, poiché a causa del continuo
svolazzamento degli abiti, riesco ad intravvedere appena un accenno di volto:
talmente poco, che non potrei descrivere com’è fatto, né saprei riconoscerlo
per strada, qualora mi capitasse d’incrociarlo.
Da questa ingrata posizione
conservo altresì un’ottima visuale sui luoghi intorno. So bene che l’uomo ponte
vive la condizione opposta alla mia: egli è ben saldo, con piedi e denti
ficcati a fondo nel terreno. Ma non tutte le giornate sono uguali: capita
ch’egli s’angosci e gema (sì, a volte lo sento piangere e disperarsi: è il
vento a portar fin qui i suoi lamenti), poiché ignora tutto quanto gli è
attorno. S’accorge del mutare delle stagioni e delle condizioni atmosferiche
grazie agli altri sensi, perché la vista gli è preclusa: odora i forti profumi
di resina e fiori a primavera, il gelo dell’inverno lo attraversa, cospargendo
il suo corpo d’un soffice manto di neve.
Capitò un giorno un fatto
straordinario: un viandante giunse fin qui. Sbucò come dal nulla, rimanendo per
ore sul margine del bosco. Lo vidi avvicinarsi, certo animato da non buone
intenzioni: lo osservai brandire per aria il suo bastone dalla punta di ferro,
agitarlo sopra le nostre teste come una spada. Avrei voluto avvertire l’uomo
ponte, metterlo sul chi va là: e tentai infatti (benché sapessi in cuor mio
dell’inutilità del gesto), gridando con quanto fiato avessi in corpo, e
spingendomi come su di un’altalena, sperando infine egli mi notasse. Fu tutto
inutile, anche perché mi trovavo sempre naturalmente sottovento: era dunque
improbabile che la mia voce lo raggiungesse in qualche modo, catturandone
l’attenzione. Rischiai oltretutto di cadere, fui sul punto di mollare la presa
e lasciarmi andare di sotto, stremato dallo sforzo dei movimenti e dallo
sgolarmi senza risultato.
E avvenne poi quanto avevo
paventato. L’uomo ponte, nel tentativo estremo di vedere chi lo stava
attraversando, pungolandolo col bastone di ferro, si voltò precipitando
entrambi nello stretto dirupo che sovrastavamo. Il balzo fu abbastanza lungo da
permettermi di raddrizzarmi e sistemarmi sulla sua pancia: lo strinsi con
prepotenza, ficcai gli occhi nei suoi per la prima volta, con sguardo di
rimprovero per quel suo agire sconsiderato.
Egli morì dopo poco, col capo
rivolto al cielo, senza una sola smorfia che lasciasse trapelare su quel volto
un’emozione, un sentimento, fosse di dolore o di gioia per la liberazione.
Ora io, riverso a terra, con i
piedi che lambiscono l’acqua ghiaccia del torrente che per tutto quel tempo
avevo osservato dall’alto, non so che fare. Non esiste alcun sentiero, alcun
appiglio, per cui sperare una risalita.
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