Claudio Di Scalzo: Un aperto cassetto (in ricordo di Adriano Spatola)
Adriano Spatola: Sterilità in metamorfosi (da Manuale di Poesia Sperimentale di Guido Guglielmi e Elio Pagliarani, Mondadori, 1966)
Adriano Spatola: Vita e bibliografia.
RICORDO SPATOLATO
Nel 1981 Spatola mi scrisse interessato a una poesia visiva che gli avevo spedito. M’invitava al Mulino di Bazzano, la pirotecnica sede del suo laboratorio, della rivista Tam Tam e di tante altre performances. Gli risposi in divisa, fanteria, ero a Chieti, nell’inverno 1981 e gli mandai una poesia visuale sul mio essere fotografato e intruppato. Mi scrisse che la metteva in Geiger 9 o in una antologia di Geiger, di quelle che veniva assemblate. Lo incontrai l'anno dopo, 1982, per una performance al Mulino Di Bazzano, dove come poeta saldatore saldavo parole di metallo! forse era il 1982. Poi ci siamo visti in molte altre occasioni. Stemmo molto assieme nel 1987, ad Udine per una mostra organizzata dalla rivista Zeta, ne ero redattore, e da Campanotto editore, a Gradisca d’Isonzo: Parola Immagine-Immagine Parola. Si ricordò di una cartolina che incorniciava la sua voluminosa stazza di poeta. «La tengo appiccicata in biblioteca», mi disse. E aggiunse qualche consiglio sul mio anarchismo distruttivo.
Recitava versi, si batteva il corpo con un microfono, era disponibile con tutti, insieme ironico e magmatico. Personificazione dell’avanguardia in Italia, la più riuscita la più fragile nei suoi esiti.
Altri vi avrebbero costruito carriere universitarie, editoriali, ruoli di prestigio nell’accademia che già esisteva in musei e gallerie, non lui: lo zeroglifico che si mischia, scompone, scompare era il suo emblema. L’avrebbe accolto in sé fino alle estreme conseguenze. Che il suo cuore si sia fermato all’improvviso è semplicemente un dato estetico, non medico. (2 luglio 2006)
Altri vi avrebbero costruito carriere universitarie, editoriali, ruoli di prestigio nell’accademia che già esisteva in musei e gallerie, non lui: lo zeroglifico che si mischia, scompone, scompare era il suo emblema. L’avrebbe accolto in sé fino alle estreme conseguenze. Che il suo cuore si sia fermato all’improvviso è semplicemente un dato estetico, non medico. (2 luglio 2006)
STERILITÀ IN METAMORFOSI
(da Manuale di Poesia Sperimentale di Guido Guglielmi e Elio Pagliarani, Mondadori, 1966)1
persino è della pietra far vermi questa notte
dentro la pietra sono i suoi capelli
grumo nero impastato con bianchissima calce
e la roccia sta nel mezzo del lago
le sue dita irte di radici sono formiche
grumi neri impastati con bianchissima calce
le cinque dita sono cinque radici nel mondo che si solleva
perché persino la pietra fa vermi questa notte
fondamento del quale purtroppo qui non è luogo
radice comune dalla quale rampollano essi stanotte
è lama di coltello che taglia tra le dita
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è lama di coltello che taglia tra le dita
si fa sabbia pietra rossa e della sabbia fango
e la roccia sta nel mezzo del lago
la mano a cinque dita che fu dentro la fogna
perché la roccia nel mezzo del lago si carica d’acqua
occhio del pesce arpionato che fissa il nero stivale che luccica d’acqua
è lama di coltello che fende la tua mano
e il mondo che si solleva si chiude a pugno
guarda nel centro della mano
ogni radice è dentro la tua carne
non risalgono più dal baratto giallo di sabbia
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non risalgono più dal baratro giallo di sabbia
grumi neri impastati con bianchissima calce
è la tua mano che s’apre tra le dita come un fiore nell’alba
rana squartata che frigge nell’olio della cucina sul fiume
e i funghi tra le dita seminati ora vedono il sole
radice inchiodata allo scafo della roccia sommersa
come s’alza nell’aria il pesce che l’aria consuma
e i funghi gonfiati dal sole producono pus
perché dentro la pietra sono i suoi capelli
perché il mondo che si solleva si chiude a pugno
perché non risalgono più dal baratro giallo di sabbia
e il sole li gonfia perché producano pus
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perché ho preso i capelli di colei che mi fece
al lento ruotare dell’occhio dentro la testa
sepolti tra le mie dita essi che terra ricopre
questa mano medusa schiacciata dal piede di marmo
quando dentro il tuo ventre semino dita di mani e di piedi
perché con la pietra si salda la torre di carne
lama di sabbia rossa che fende la sterile acqua
e il mondo che si solleva si chiude a pugno
al lento ruotare dell’occhio dentro la testa
radice inchiodata allo scafo della roccia sommersa
pesce che s’alza nell’aria e che l’aria consuma
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è la tua colpa colomba rossa che sale dall’intestino
come la mano che tengo nell’acqua che bolle
e il ventre è questa parete che scivola sopra di me
mentre distesa sul fianco la città s’addormenta
in mezzo alla piazza di marmo gonfio di pus
e come sappiamo da tempo da sempre bambini gridano in piazza
quando mi levo dal letto sopra la valle
e la sua mano aperta sotto la gonfia radice si chiude con la radice
perché non risalgono più dal baratro giallo di sabbia
avendo già appeso il cappello alla torre dell’orologio
corpo di luce che dentro alimento e distruggo
gonfie di vermi radici le sbarre in rugoso cemento
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lascio la lingua che affondi dentro la pietra scheggiata
mentre mi spezzo le unghie contro la tenera carne
perché ho preso i capelli di colei che mi fece
perché persino la pietra fa vermi questa notte
al lento ruotare dell’occhio dentro la testa
quando su dal tuo ventre sorgono dita di mani e di piedi
denti del ventre che strappo con l’unghia affilata
affinché il piede dell’uomo conosca la morsa delle radici
tra i funghi gonfiati dal sole che semina pus
corpo di luce che dentro alimento e distruggo
qui dentro lamiera contorta della sua casa
la roccia nel mezzo del lago si carica d’acqua
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la roccia nel mezzo del lago si carica d’acqua
nero impastato con bianchissima calce
tela bianca che strappo con l’unghia affilata
qui dentro lamiera contorta della sua casa
scende la pressa rugosa che schiaccia la dura mano
è la tua colpa colomba rossa che ruota dentro la testa
piedi di marmo che tarlo corrode nel mezzo del prato
ora che il tempo equivale a ciò che sarà
unghia che taglia contorta lamiera del ponte
al lento ruotare del pesce dentro la roccia
8
semino capelli e dita nel ventre che arai
perché con la pietra si salda la torre di carne
ed è calda la cera che scende a riempire la bocca
ora che il tempo equivale a ciò che sarà
radice inchiodata allo scafo della roccia sommersa
e lungo disteso sul pavimento il quadro dell’impiccato
perché ho preso i capelli di colei che mi fece
radice comune dalla quale rampollano essi stanotte
perché il mondo che si solleva si chiude a pugno
quando nel sonno degli abitanti si brucia la vera città
scoppiano sassi nel fuoco sotto la pelle
riga che cresce e che sale sul foglio
verso ritmato nel luogo dell’insolita lama
e il ventre è questa parte che scivola sopra di me
sui denti che l’unghia affilata strappa dall’alveo
9
e dentro qui questa pietra capelli di questa colei
ah che prendo le dita e i capelli di questa colei
come s’alza nel pesce lamiera contorta del ponte
affinché il piede dell’uomo conosca la morsa delle radici
e come sappiamo da tempo da sempre bambini gridano in piazza
sepolti tra le tue dita essi che terra ricopre
pesce che friggenell’olio della cucina sul fiume
mondo che si solleva nel chiudersi a pugno
raccolgo polvere e sassi sotto la pelle
mentre chino sul foglio annoto gli effetti dell’esplosione
per questa ripugnanza tra tue chino e me chino in avanti
e il nodo che lega alle cose divampa sul collo dell’impiccato
10
io siedo sopra me stesso
rosea medusa che brucio la mia libertà
è la mia pelle conciata il muro che incido con l’unghia
fuoco che danza nel volto contro se stesso
corpo di luce che dentro alimento e distruggo
s’accumula cera che frigge tra l’unghia e la carne
la roccia sommersa divampa dentro la sterile acqua
al lento nuotare dell’occhio dentro la testa
nel ventre di questa parete che scivola sopra di me
sabbia che si fa pietra
l’erba che cresca in mezzo ai capelli
ruggine sopra le unghie
ora che il tempo equivale a ciò che sarà
pressa rugosa che schiaccia nell’occhio la testa
gonfia di vermi radice la sbarra in rugoso cemento
la mano le cinque dita già dentro la fogna
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perché si degna colei che mi fece
radice inchiodata allo scafo della roccia sommersa
e scoppiano sassi nel fuoco sotto la pelle
è questa la mia sapienza è la sapienza che parlo
nodo che lega alle cose divampo nel collo dell’impiccato
perché si degna colei che mi fece
e io siedo sopra me stesso
mentre ruota la notte nell’occhio del chiuso spazio
mentre scivola sopra di me nel suo ventre la bianca parete
con questa sapienza che il sole gonfia di pus
perché si degna colei che mi fece
roccia sommersa divampo dentro la sterile acqua
tela bianca che strappo con l’unghia affilata
polvere e sassi raccolti sotto la pelle
cinque dita cinque radici nel mondo che si solleva
perché si degna colei che mi fece
I2
è lama di coltello che fende la mia mano
mentre la roccia nel mezzo del lago si carica d’acqua
né più risale dal baratro giallo di sabbia
là dentro lamiera contorta della mia casa
mentre chino sul foglio annoto gli effetti dell’esplosione
è la mia pelle conciata il muro che incido con l’unghia
nel ventre di questa parete che scivola sopra di me
grumo nero impastato con bianchissima calce
cinque dita cinque radici nel mondo che si solleva
sui denti che l’unghia affilata strappa dall’alveo
fuoco che danza nel volto contro se stesso
rosea medusa che brucia la mia libertà
s ‘accumula cera che frigge tra l’unghia e la carne
gonfia di vermi radice la sbarra in rugoso cemento
e come sappiamo da tempo da sempre bambini gridano in piazza
quando nel sonno degli abitanti si brucia la vera città
al lento nuotare del pesce dentro la roccia
e i funghi gonfiati dal sole producono pus
13
poiché persino la pietra fa vermi questa notte
casa avvampante nello spazio chiuso dai chiodi della roccia
rana squartata che frigge nell’olio della cucina sul fiume
e l’erba ricresce tra i suoi capelli
è la tua mano che s’apre come un fiore nell’alba
è la radice inchiodata allo scafo della roccia sommersa
è la mia colpa dispersa nel ventre di alcune madri
ah giuoco che mi moltiplica
ah freccia feconda
ah torre feconda
poiché persino la pietra fa vermi questa notte
trascina la pelle che pende sopra la ghiaia del nostro giardino
piede che fango ricopre al salire del mondo
riga che cresce e che sale sul foglio
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riga che cresce e che sale sul foglio
fuoco che danza nel vuoto contro se stesso
mentre distesa sul fianco la città s’addormenta
e semino capelli e dita nel ventre che arai
e il ventre è questa parete che scivola sopra di me
e come sappiamo da sempre da tempo bambini gridano in piazza
luce che si consuma nel pesce che ruota dentro la testa
tela bianca che strappo con l’unghia affilata
unghie spezzate contro la tenera carne
la tua colpa colomba rossa che sale dall’intestino
è la mia colpa dispersa nei ventre di alcune madri
e nel tuo ventre il nodo che lega alle cose
pesce che s’alza nell’aria e che l’aria consuma
15
è lama di sabbia rossa che fende la sterile acqua
questa mano medusa schiacciata dal piede di marmo
nel ventre di questa parete che scivola sopra di me
pressa di marmo che scende con cinque radici sopra la testa
cinque radici nel mondo che si solleva chiudendosi a pugno
siringa che inietta bacilli alla radice del naso
perché a quel tempo tra gli occhi non c’era la morte
non c’era a quel tempo tra gli occhi una cosa immortale
ma sono le grida dei bimbi che giocano in piazza
nel ventre di questa parete le cinque radici
lame di sabbia rossa che fendono sterili acque
e collo dell’impiccato
di ciò che è stato detto
si sa che è stato detto perché bruci nel mondo
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a cui ci sono dati gli oggetti quando sono pensati
per questa ripugnanza tra me chino e chino in avanti
radice comune dalla quale rampollano essi stanotte
posizione imperfetta che con lo sguardo riacquisto così
perché cosi si trascende nell’onda che gonfia stanotte
in cui ci sono dati gli oggetti quando sono pensati
e precedono quelli che oggetti hanno pure un motivo
fondamento del quale purtroppo qui non è luogo
radice comune dalla quale rampollano essi stanotte
in cui ci sono dati gli oggetti quando sono pensati
e precedono quelli che oggetti hanno pure un motivo
fondamento del quale purtroppo qui non è luogo
radice comune dalla quale rampollano essi stanotte
per questa ineguaglianza tra me chino e me chino in avanti
perché sia necessario notare soltanto la condizione
perché non solo essenziali si appare secondo la divisione
ADRIANO SPATOLA: ZEROGLIFICO, 1966
Come commento allo Zeroglifico riportiamo una dichiarazione di poetica di Adriano Spatola comparsa nel libro Zeroglifico (Sampietro, Bologna 1966): «L’obbiettivo della poesia concreta è la ristrutturazione sistematica dei metodi di creazione poetica, mediante la ricerca sperimentale di nuove forme di disponibilità eteronoma del fare poetico e la Costruzione di modelli di comportamento inediti all’interno dell’attività creativa. Le esperienze svolte nell’ambito della poesia concreta sono caratterizzate dalla provocazione controllata di aperture semantiche a largo raggio, i cui risultati si presentano come dati preliminari di operazioni successive intese all’analisi delle possibilità “attive” della parola, sulla base del postulato che la parola non è l’oggetto amorfo ma il centro vitale di forze in continua trasformazione.
«La poesia concreta (effetto ottico + valore semantico) muovendosi nel più vasto contesto della poesia sperimentale analizza le tecniche di interazione tra i vari livelli di significato, agendo per mezzo di metamorfosi morfologiche, fonologiche o sintattiche, e di declinazioni o sostituzioni sillabiche.
«Arte essenzialmente tecnica, la poesia concreta è poesia razionale, fondata non più soltanto sulle leggi estetiche ma anche su quelle statistiche, e rappresenta un passo decisivo verso il rinnovamento radicale dell’immaginazione».
ADRIANO SPATOLA: VITA E BIBLIOGRAFIA
Adriano Spatola è nato a Sapjane (Istria) nel 1941 ed è morto a Sant'Ilario d'Enza (RE) nel 1988. Dopo un'adolescenza vissuta ad Imola, nel 1957 si trasferisce a Bologna dove collabora alla rivista Il Mulino e successivamente conosce all'Università Luciano Anceschi che lo fa collaborare al Verri. A Bologna pubblica la sua prima plaquette di poesie, Le pietre e gli dei (Tamari, 1961) e fonda la sua prima rivista, Bab Ilu, con C. Altarocca, V. Bini, A. Ceccarelli, C.M. Conti, e Malebolge, con G. Celli, C. Costa, A. Porta, N. Scolari. Ha pubblicato, inoltre, L'ebreo negro (Scheiwiller, Milano, 1966), Majakovskiiiiiij (Geiger, Torino, 1971; The Red Hill Press, Los Angeles & Fairfax, 1975), Diversi accorgimenti (Geiger, 1975), Various Devices (The Red Hill Press, 1977), La composizione del testo (Cooperativa Scrittori, Milano, 1978), Cacciatore di mosche (I Telai del Bernini, Modena, 1980), La piegatura del foglio (Guida, Napoli, 1983); poesie visuali e concrete, Poesia da montare (Sampietro, Bologna, 1965), Zeroglifico (id., 1966; Geiger, 1975), Algoritmo (Geiger, 1968), Zeroglyphics (Red Hill Press, 1977), La panoplie (Manicle, Aix-en-Provence, 1983), Recenti zeroglifici (Il Punto, Velletri, 1985); il romanzo L'Oblò (Feltrinelli, Milano, 1964) e i saggi Verso la poesia totale (Rumma, Salerno, 1969; Paravia, Torino, 1978), Miroglio, qualcosa di metafisico (Geiger, 1970), Quadri ritratti miraggi di Francesco Guerrieri (id., 1971), Impaginazioni (Tam Tam, San Polo D'Enza, 1984), Il futurismo (Elle Emme, Milano, 1986). Dopo un breve periodo trascorso a Roma, dove entra nella redazione di Quindici, trasferitosi a Torino, nel 1968 dà inizio con i fratelli Maurizio e Tiziano alle Edizioni Geiger. Si ritira poi con Giulia Niccolai, sua compagna dopo la separazione dalla moglie Anna Fausta Neri, a Mulino di Bazzano, dando vita, nel 1971, alla rivista Tam Tam. Nel '79, terminato il sodalizio con la Niccolai, fonda e dirige Baobab (la prima audiorivista di poesia in Italia) e nel 1981 Cervo Volante, poi diretta da A. Bonito Oliva ed E. Sanguineti. Ha partecipato e curato a numerose esposizioni di poesia visuale e performances di poesia sonora.