sabato 22 giugno 2024

Libertario Di Scalzo detto Lalo e Figlio detto Accio: La filosofia del cancello verde. II Luglio 2011

    

Libertario detto Lalo e Claudio detto Accio - 17 luglio 2011



CARI LADRI QUI SOLDI NON CI SONO…


Cari ladri… in questa casa di soldi non ce ne sono. La porta è aperta. Come lo è il cancello verde fatto a scala. Se avete fame nella dispensa c’è pane fresco e salame. Se siete mussulmani c’è una forma di pecorino. Il vino bianco è in frigorifero e sul tavolo quello rosso. La frutta sulla tovaglia, senza veleni, è del mio campo alla Barra. Nella stanza accanto ci sono i libri del mi' figliolo, Accio. Se vi piace leggere prendete quelli che volete tanto lui li ha già letti. È un compagno come me e quanto prendete potete tenerlo.
Non mi svegliate andando via perché domattina presto vado col camion a caricare la paglia in San Rossore. Col fresco si lavora meglio. Saluti”.

Questo cartello sulla porta di casa lo mise mio padre Lalo. La versione che so io. Altre me ne hanno raccontate. Prendeva in giro la paura negli anni novanta dei ladri, tutti albanesi o slavi o zingari secondo la vulgata del sospetto contro i diversi. Ma scherzava anche con la Nada per niente rassicurata da un cancello verde così facile da scalare. Mi ricordava con affetto per i libri letti e come compagno. Questo vale molto per me. E’ una prosa umoristica che traspare il suo anarchismo umanista. Oggi, diciassette luglio 2011, una storia orale incontra la mia trascrizione scritta on line. Per questo siamo assieme davanti al cancello in camicia bianca e lineamenti consegnati all’ombra dell’essere, io e lui, due sconfitti. Nei tempi che corrono. Nelle avventure che ci riguardarono. Dove molto perdemmo inventando la “filosofia del cancello verde”.


Libertario Di Scalzo detto Lalo e Figlio Claudio detto Accio

Luglio 2011





Libertario Di Scalzo detto Lalo e Figlio Claudio detto Accio: La filosofia del cancello verde. I, luglio 2011

       

                                        Libertario detto Lalo e Claudio detto Accio - 17 luglio 2011




LA FILOSOFIA DEL CANCELLO VERDE, I


Le filosofie di vita sono tante. Da quelle esistenzialistiche alla Sartre a quelle del fornaio del giorno per giorno lievitate la notte. La mia è “La filosofia del cancello verde”. E l’ho elaborata in un racconto con foto, di mio padre Libertario Di Scalzo detto Lalo, nel luglio 2011. Come sia possibile che mio padre morto il 12 giugno 1995, possa stare in questa estate in posa davanti al suo cancello, non so dirlo, ma essendo un’ombra forse ciò è possibile con le risorse dell’avanti e indietro della letteratura.

Mio padre dopo le ripetute insistenze della Nada - che in questi giorni mi ha dato la sua versione sul cancello, ricavandone lietezza per il suo cuore medicalizzato in visite mediche che tanta ansia le danno - si decise a mettere un cancello davanti a casa. Per dare alla moglie una maggiore sicurezza con la chiave la sera sul mobiletto d’ingresso. Visto che lui, giocatore di carte, tornava parecchio tardi. “Ma lo faccio io il cancello e a modo mio”, esclamò Lalo. Mia madre era perplessa, paventò un disastro nelle saldature, però mio padre fu irremovibile. S’inventava saldatore e fabbro. “Un camionista come me sa fare tutto”, disse. “E muro anche le colonnine su cui poggiarlo”. Aggiunse spavaldo. Mia madre lo lasciò combinare quello che voleva. “Il cavallo matto di razza va fatto correre come vuole”. Proverbio che poi mi è stato trasmesso in eredità. Dalla Nada: dal marito al figlio. In più la larghezza da coprire con un cancello era ampia. Perché lì ci passava il camion OM 642 che veniva parcheggiato nel fienile sul fondo della viottola. Dove ora, nella foto, si vede un ombrellone e una porta dopo il pino il noce e la magnolia dove il camion riposava i carburatori. E la mia licenza elementare non fu, a dieci anni, prendere un foglio di carta, ma saper parcheggiare dalla strada, entrando sull'aia, il camion OM 642, al volante. Con Lalo che si divertiva a guidarmi lungo le ruote, dicendomi: spostati a mare, Accio, spostati a monte, per dirmi vai a destra vai a sinistra. Se è così che si diventa anche artisti so chi ringraziare.

Lalo lavorò tanti giorni con grande lena, saldò anche senza occhiali scuri un paio di volte, facendosi diventare gli occhi rossi come una bestia sotto il sole estivo. E colorandolo verde perché “l’erba a primavera rinasce di questo colore e non muore mai” completò il cancello, e la sua teoria di fabbro e camionista libertario. Creando naturalmente malumore e litigi con la Nada per niente rassicurata.

“Il cancello ha barre orizzontali. Come una scala. Il verticale non mi piace. Se anche il cancello è chiuso chi vuol venire a trovarmi, ci sale con facilità, e salta dall’altra parte. Mi chiama ed entra. La tavola è apparecchiata. Io stesso se torno tardi dal bar della piazza, se è chiuso, perché te Nada vuoi stare serrata, ci monto sopra, abbacco, e vado di là. Dei ladri non preoccuparti, un cancello così gli fa capire che trippa per i gatti in casa non ce n’è”. Il mi’ babbo, aveva inventato il “cancello che cancello non era”. Per questo sta fotografato con me in nera ombra sabbiosa e camicia bianca davanti alla sua opera che è anche la mia. Siamo fotografati in un giorno del luglio 2011.

Il mio aggiornamento della “Filosofia del cancello” è la seguente. Da un decennio e più sto sul Web. Qui pubblico e disegno. Ho un weblog  come Tellusfoglio, e una rivista come L'Olandese Volante. Qui come con il “Cancello verde” di mio padre, si può entrare in qualsiasi momento e sono in casa ad accogliere chi viene. Dando loro tutto quello che ho. Anche se è poco. E come i ladri non avrebbero trovato soldi e i gatti trippa entrando, così nei miei Weblog e nella nave dell’Olandese Volante, non ci sono titoli per far carriera o galloni per qualsiasi gerarchia di miserando potere. Per comandare. C’è la tavola imbandita, quella sì, sempre, per gli amici per le amiche, per i passeggeri, per chi vuole stare in compagnia, e qui vige il motto, che mio padre, Libertario detto Lalo, voleva scrivere sul cancello, e che poi la Nada la vinse, facendolo desistere, perché un cancello non è un manifesto politico. Aveva ragione. Era ed è, una filosofia di vita. Che io, Accio, ho ereditato. “Né comandare, né essere comandati. Comunismo.

Libertario Di Scalzo detto Lalo e Figlio Claudio detto Accio
luglio 2011



 
 

giovedì 6 giugno 2024

Karoline Knabberchen: Penultimo gradino II (a cura di Claudio Di Scalzo)


Karoline Knabberchen a Marina di Vecchiano - Foto Fabio Nardi 1982





Karoline Knabberchen
PENULTIMO GRADINO

(a cura di Claudio Di Scalzo)

II

Dietro oltre le dune, dietro i denti di qualche vetta, il fiume scava un letto alle nostre notti di veglia. Come resistere al richiamo del sonno, con il corpo che diventa tutto curve ed anse, e crepita di nuova vita nell'abbraccio del delta? Dimenticare da dove veniamo è l'unico sacrilegio che nasce e muore con noi, il marchio che ci rende schiavi: fino a che un uomo, un poeta, non pronuncerà il Nome della casa che credevamo perduta per sempre. Allora la storia srotolerà in terra il tappeto color porpora degli imperatori, e il Figlio varcherà la soglia con tutti gli onori; come quel condottiero che con una manciata di uomini tenne a bada un'intera nazione. Tutto questo al penultimo gradino.

All'ultimo, il battesimo del sale mi ha inviato dodici ricci di mare, ognuno col suo compito preciso, perché il Vangelo sia nuovamente compreso tra gli uomini. In loro parlava la mia voce, ma più chiara e senza inclinazioni: drittissima, percorreva la liturgia degli abissi. Il mio pascolo sarà questa distesa d'alghe, nessun essere soffrirà più. Il Figlio, immobile un attimo sotto l'arco di pietra della porta, fingerà che il buio improvviso gli ferisca lo sguardo, così abituato alla fatica della battaglia sotto il carro del sole. Faticherà a riconoscere il luogo dei suoi natali; ma poi, come emergessero dagli abissi infiniti poche linee, il volume di oggetti familiari lo accarezzerà. Affiorano i ricordi, la stanchezza ricacciata lo abbandonerà. All'ultimo gradino il Figlio ritrova la casa della sua anima.

FINE












CDS/FABIO NARDI


IL DONO DI KAROLINE

Il poema, la narrazione poematica, con connubi teatrali e intensamente da romanzo in versi ebbe episodica firma  in Karoline Knabberchen. "Penultimo gradino" ne è esempio. Anche il sacro entra a determinare l'avanti e indietro delle voci narranti e poeticamente amanti dei vari generi che già nell'antica Grecia ebbero eco e ascolto nei templi. Per la sua biografia tragica, e l'altezza del suo dettato, Karoline Knabberchen è sempre il mio mattino. E così pubblico la sua forza che nel vetro e nel miele della voce è forgiata.





SULL'OLANDESE VOLANTE BARRA ROSSA/KAROLINE K








vicende di Karoline Knabberchen 


(Guarda-Engadina 1959 - Lofoten-Norvegia 1984)




Karoline Knabberchen: Frammenti Orfici per l'8 dicembre 1982 di Fabio Nardi. Cura Claudio Di Scalzo.



Claudio Di Scalzo: "Bacio pagano in immacolato piano" - 1982

Bozzetto mai terminato








(a cura di Claudio Di Scalzo)

Karoline Knabberchen 

FRAMMENTI ORFICI IMMACOLATI

a Fabio Nardi per l’otto dicembre 1982


°
Donare come movimento da una mano all'altra, da un'anima all'altra.
Per questo prendo dalle tue mani - che ora con tutta me stessa vorrei stringere nelle mie - ogni tuo dono


°
Avevano maggior sostanza i sogni? O eravamo esattamente la stessa pasta madre che li lievita?


°
Allora dell’eco che rimane?
Parla l’ora felice, quella che m’è data in sorte – io credo – per virtù e per scelta. Un riverbero ancora, sincero e senza materia bruta. Leggera increspatura che solletica la fantasia. 


°
La noce persiste a battere dentro le ossa del cranio. Sono venuta a confessarmi dal giudice, perché Dio non ha nulla di nuovo da dirmi. Il fatto è che non riesco neppure a spezzarmi: la torsione è sempre maggiore e qualcuno ogni tanto passando mi raccoglie.


°
L'acqua fiorisce il mio volto, il mio-cardio distoglie i colpi dati con troppa foga. Ridisegno delicatezza soltanto se a parlarmi è l'altra voce, non quella che mi trova sempre verso sera.


°
Ho una mano gentile, se l'afferri te lo dimostro. Ma poi scivolo dalla toppa della chiave, nella porta di camera tua.


°
Tu mi cuoci (ha scritto Saffo... E credo nessuno possa dir meglio di un amore che cucina in carne e spirito la ricetta perfetta con gli ingredienti giusti) Tu mi cuoci e mi sento protetta


°
Ho amato il Kouros di Milo, fu amante nel mio letto di vergine – mi inquieta il suo sorriso eppure sul suo arco mi lascerei cullare finché l’ultima stella fosse scomparsa in cielo – e pure… la pietra s’è mossa per follia d’amore, nella mia direzione!


           °
           ho una vibrazione che mi attraversa gli occhi
           essere l'uguale e l'opposto
           in te


                         °
                         come raccogliere da mille svenimenti una vita
                         colpita al tappeto
                         riavuta



                                  °
                                  sono il nodo che lega filari abbandonati e stanchi
                                  mi spaventa l'iride
                                  mia celeste



                                        °
                                        sono urna e seme e il petto balza un galoppo
                                        di fatica nel mistero
                                        che mi stringe



                                               °
                                               senza spingere in gola i risultati dei nostri nidi
                                                         solidi dipinti tutti nelle vene
                                                           salde nei polsi














SULL'OLANDESE VOLANTE BARRA ROSSA/CDS/KAROLINE K




Karoline Knabberchen: Apologhi per il Serchio e dintorni. Campo della Barra 1982. A Fabio Nardi mio fidanzato



CDS: KK alle Lofoten - 1985 






Karoline Knabberchen

APOLOGHI PER IL SERCHIO E DINTORNI

CAMPO DELLA BARRA - 1982

a Fabio Nardi mio fidanzato



1

Il Serchio scrive per me questa lettera, la carta bagnata come  i polpastrelli che ieri m’accarezzavano, agguanterà la tua nudità intesa dal tatto e consegnata  all’ascolto.

Due sensi si prestano il senso, dentro il verso denso d’acqua che impasta schiuma e inchiostro nella corrente.
Ho gettato i fogli dall’argine dove giocavi bambino, nel punto esatto e agevole  – quando l’acqua era poca –  a saltare dall’altra parte. Spero da qui di raggiungerti.

Il Serchio ha cambiato corso nel VI sec. per ordine del vescovo di Lucca, San Frediano. Da allora lambisce Ripafratta, a ovest del Monte Pisano.
Le parole che ti dedicavo non esistono più, sono schiuma: il bianco ha cancellato il peccato della scrittura; come animale ferito che si lecca, l’onda lambisce il passato prossimo del mio pennino sulla carta.
Anche l’ansa del pube è stata deviata verso la tua tirannia amorosa. Non te n’eri accorto, fino a questa mattina?, quando la grafia ha disertato il tuo sguardo per la sciocca ripicca del carcerato verso il carceriere.


2

Marina di Pisa consegna un campo metafisico. In inverno spreme il sole come limone sulle nostre fronti.
Sei asprigna, dici, e mi raggiunge la tua lingua lì dove i raggi cercano la maturazione.

Questi viali tanto ampi - già piste d’atterraggio per i G50 dalla Regia Aeronautica, durante la Grande Guerra - offrono un corrimano ascendente alla mia fantasia surrealista.

Amo gli intonaci che cadono, pezzando le facciate a Villa Ruchal e Villa Belliure. I drappeggi liberty sono appena rammendi sdruciti dall’alito salmastro: rivelano regole difformi alla mollezza balneare del blasone vacanziero di queste rive.

È tutto in disarmo, anche il tuo sorriso indispettito davanti a certe mie cerimoniose stranezze.


3

Dalla Rocca di San Paolino, Massaciuccoli sembra un’iride stemperata nel torpore pomeridiano che, a marzo, imita la primavera. L’ascesa al colle Vergario è la diramazione del nostro amarci. Dove piega la strada, dolcemente divaga il respiro. Esiste un punto in bilico nel vuoto, in cui nulla somiglia più a ciò che è: non esiste più il budello di Ripafratta con le sue poche case infilzate a terra come lisca di pesce; non esiste Vecchiano, sprofondata nel verde indomabile dell’entroterra lucchese. Qui leggevamo i falchi di Jeffers.

Non ti sembra l’ossigeno ci succhi l’azzurro del suo cielo?


4

Sbuffi di vento t’illuminano i capelli in lampi violacei, dietro cortine di nuvole che accendono e spengono l’orizzonte. Marina di Vecchiano è un’infermità dell’anima. Refoli rigettano in grembo, annerendola, l’indecisione incisa dietro le tue palpebre. “La sabbia sembra grattugia”, ti dico, “come i tuoi Zeppelin”, quest’oggi.

5

L’abitudine ad abitare le pagine dei libri l’ho presa da bambina, durante i lunghi periodi di malattia, in cui le uniche a parlarmi – passando dal buco della serratura come in una clessidra – erano le ore. Qui a Vecchiano ho disvelato il segreto dell’ascolto. Abitiamo stanze e scaffali con la stessa dimestichezza del ragno che pazientemente intessa il suo più prossimo futuro e, contemporaneamente, un bozzolo capace di contenerne il corpo. La pazienza, però, si lega sempre all’attesa della caccia, in quest’angolo della casa; e la scrittura diluita sul bianco della fronte non spegne il desiderio di morire, nonostante tutto, assieme alla parola “FINE”.


6

Dietro: dune e ciuffi d’erba dadaisti, spalle al mare. San Rossore freme nella luce serale.

Qui Friedrich avrebbe dipinto me, Karoline, damascata nell’ora che sfinisce il canto delle cicale. Come rappresenteresti il tuo amore per me? Certo incollando tra loro frammenti discordanti come  labbra imperlate di sabbia, sprofondato nel petto di un col-la-ge scambiato per il mio de-col-té.
Ma tu, sentinella rossa d’avanguardia, non comprendi la necessità di respirare con tutti i sensi l’ultimo esito romantico che quest’aria imprime?
Sarei la tua “Signora alla luce del tramonto”, sotto l’ascella siderale del primo buio, dietro l’orizzonte che piega sopra le nostre spalle; e ti dovrebbe bastare, di me, questo cameo. Invece aneli alla scomposizione, popolano demiurgo d’una nuova estetica d’amore.


7

Da Piazza Garibaldi, svoltata poi via Indipendenza, mi sento a casa… E tu non ci sei.
Sei rimasto al mare dopo il litigio, piantato come uno scoglio (“Senza te la solitudine è perfetta”, hai detto, “con te c’è sempre la necessità di condividerla!”): ma i tuoi genitori han reciso con l’affetto questo virgulto d’indifferenza. Tuo padre ha riconosciuto sul mio viso, arrossato, le tracce del tuo passaggio, lo sfregamento della lingua rasposa con cui delimiti un territorio troppo vasto da esplorare: è la sua semplificazione, ha detto  – in realtà già atto di sottomissione al sentimento che segna e spaventa, come un marchio rovente del pensiero.

Se solo tu sapessi attendere, dietro al bisogno, sarei la devota rappresentazione d’ogni vastità turbata dal tuo sguardo.


8

Cos’ha panificato la notte al nostro abbraccio?
Sei stato attento che tra le mie ossa non ci fosse spazio perché germogliasse il seme? Non vuoi un figlio: perché siamo giovani, dici. Non credo all’anagrafica compiuta o incompiuta dell’amore che lega due destini più stretti che se fossero già un corpo solo.
Cos’è che, mentre cresce, ti diminuisce, fino a spegnere la luce nel buio del mio ventre?

Marina di Vecchiano accoglie tra le dune solo gli accoppiamenti, tralasciando gli esiti più fausti, che sgorgano in sangue e sperma, nella donna e nell’uomo?
Non sono tagliato per la famiglia, hai sussurrato alla mia spalla che tremava. Con questo hai creduto di rasserenare il cielo.


9

A Santa Maria in Castello è dispensato lo sguardo pacifico di Dio. Accanto alla croce sono la pupilla espansa nella preghiera, e ciò che sotto di me si concretizza, la luce subito rivela.

Vedo casa tua - più in là mi indichi Piazza dei Miracoli. Tu non te ne accorgi, ma qui in alto neppure tu sai celarti come quando abitiamo le stesse similitudini. Divento un unico senso, e ne ho sei – sempre uno più di te – con cui giocare.
Stiamo in silenzio per un’ora, ed è come ritrovarsi, quando ce ne andiamo.
Sopra di noi volteggia silenzioso il falco. È sorprendente la sua immobilità. Non te lo indico, e tu non te ne accorgi.



10

Il Campo alla Barra disperde semi, come un’anfora scoperchiata. “È la primavera”, mi sorride tuo padre, e torna al lavoro. Ci vorrebbe mettere gabbie per conigli e galline, ma poi è inutile perché i fascisti glieli verrebbero a rubare – “Per sfregio”, dice, “non per fame. Fosse per fame li lascerei anche fare”. Questa è la sua poetica, Fabio, vera militanza alla Majakovskij. Il comunismo con lui non ha fallito, e questo te lo ricorderai quando lui non ci sarà più, e ancora ti rincorreranno i fascisti, per rubarti tutto ciò che hai vissuto assieme a me.


11

Il cielo illividisce i contorni nella pineta, a Marinella di Sarzana. Diretti a La Spezia ci incagliamo come palloncini tra le sue fronde. La mattina è ancorata intorno a me, mi lavora i fianchi il vento come dentro un tornio. Insomma, il mare d’inverno qui si fionda, lancia frammenti d’immaginario come segni d’abbandono o di rinuncia.
“Qui la nostra guerra è persa!”, ti annuncio (mi chiami “estrosa” e tutto ricevo da te qui come un minuzzolo di salvezza). Mi mette allegria pensare che ci siamo persi prima di arrenderci.


12

Il vetro si intromette tra le nostre febbri. Opacizza e non chiarisce. Infatti tu ci respiri sopra e riscrivi la fine, come si trattasse d’un gioco e non della sostanza che ci estrae.

È trasparente ciò che separa, inesplorato confine del mondo: e si manifesta sempre qui, in queste due stanze, mentre la magnolia fischietta nel vento la sua indifferenza (o solo la mancata partecipazione?) a quanto avviene dentro. È piena di leggende questa casa. Tamburellano tra le mie tempie il tempo esatto d’un distico – tu dici ‘è la pioggia’ che a goccioloni marcia sopra la finestra già da ore - kamikaze del nostro amore - come un accento su ciò che muore.


13

Torna a chiudersi l’Arno tra le nostre dita. Intreccia la Chiesa della Spina il destino con divinità incapaci a proteggerla dall’inondazione. Pisa è tutta in bilico su queste dieci dita: l’intreccio è una diga che benefica si scorda della sua immortalità. Come giocano gli amanti tra una sponda e l’altra!, ogni ponte è la prossima vita in cui si ritroveranno – vergini – dentro un altro piacere.


da "Le età dell'angelo svizzero Karoline Knabberchen" 1982





KK





SULL'OLANDESE VOLANTE BARRA ROSSA CDS/KK






Karoline Knabberchen: “Ci sia cura” – Da “Le età dell’angelo svizzero Karoline”.



  

 CDS: "Karoline Knabberchen nei fiori di Braque" - Parigi, 1981




CI SIA CURA




Ci sia cura.
Cura anche nell'abbandono, potrei dire.
Mi chiedevi letteratura da spremere fin dalle vene, eccola che viene!
             
Sono troppo stropicciata per vivere a lungo. Sia chiaro, lo dico per usura, non per pietà.
Perché i denti strappano quel che possono dal pasto comune, però mi stanco prima degli altri.
Nella cucciolata sarei stata la condannata a morte.
            
Se mi vedi qui, ora, è per una sorta di miraggio cui anch'io riesco a credere.
Ma devo spianare la tovaglia sulla tavola per creare l'illusione. Altrimenti torno indietro e a ritroso non vedo più la strada...
              
Fabio ha questo capo del filo in mano. Non ho proprio paura. Perché dall'altra parte del filo non sono legata io. Ma se lui tirasse, per forza, io sarei costretta a cadere. È una scelta, diciamo.
Incomprensibile anche a me.
                  
A Guarda d'Engadina le luci sono spente, un temporale ci ha portato via anche la vista del buio...
Dormirò quel che è ragionevole per una sera così.
Fabio lo amo. Ma può davvero bastare?



(KK Formiche sui polsi - Diario)




Da “Le età dell’angelo svizzero Karoline”