DUE LETTERE
SU "IL GUARDIANO DEL FARO"
DI HENRYK SIENKIEWICZ
I suoi occhi scintillavano. Per le nuove strade della vita
portava sul petto il suo libro,
e di tanto in tanto lo serrava contro di sé come se temesse di perdere anche quello…
e di tanto in tanto lo serrava contro di sé come se temesse di perdere anche quello…
Accio. Mio lontano Claudio. Da Monaco. Ti dedico questa traduzione de Il
Guardiano del faro di Sienkiewicz. Sei Guardiano del faro anche tu. Stai
nella mansarda. Vetrata che guarda la Valchiavenna. Qui accendi L'OLANDESE VOLANTE. Il ridestarsi in te della nostalgia, per la patria che non sai
più dove sia, che vagamente chiami Sud, ti fa somigliare al vecchio soldato
dell’insurrezione polacca del 1830 quando scopre che ancora “al di là del suo
scoglio esisteva il mondo”.
Solitudine. Sconfitte. Stolte ingenuità. Sciagurati abbagli. Perdita anche del faro detto L'OLANDESE VOLANTE - accadra! - che poi è il tuo modo di essere poeta… ti riguardano. Possa un giorno trovare requie. Guarire dalla tesknota, intraducibile parola polacca che è struggimento e desiderio insieme a malinconia e speranza - restando quest’ultima in te perché è il tuo cattolicesimo - tornare in patria. Tenere stretto il tuo libro. Senza più scrivere niente. E’ stata la tua erranza. La tua infelicità. Il tuo offrirti alla perdita...
Solitudine. Sconfitte. Stolte ingenuità. Sciagurati abbagli. Perdita anche del faro detto L'OLANDESE VOLANTE - accadra! - che poi è il tuo modo di essere poeta… ti riguardano. Possa un giorno trovare requie. Guarire dalla tesknota, intraducibile parola polacca che è struggimento e desiderio insieme a malinconia e speranza - restando quest’ultima in te perché è il tuo cattolicesimo - tornare in patria. Tenere stretto il tuo libro. Senza più scrivere niente. E’ stata la tua erranza. La tua infelicità. Il tuo offrirti alla perdita...
Tua Margherita
Margherita mia... rispondo da Vecchiano, dalla cucina, dall’ovo fritto
mangiato con un carciofo crudo nell’intingolo. Manca la brava cuoca a
cucinare orate, cara Margherita. La Nada è in ospedale e il suo stanco cuore rischia di fermarsi se non le accostano un raddoppio della "macchinetta" come chiama lei il by-pass! Pubblicherò il “Guardiano”
accettando il paragone. Sono momenti ardui. Speravo ne stesse fuori il
cardiogramma materno. Non è stato così. Stamani ho pensato a Parmenide. Forse
con la Croce qualche contatto c’è. In una corsia d’ospedale pensavo al filosofo
di Elea. A come sia stato un’esistenza intera nel flusso del mutevole,
essendone sagomato con la mia fattiva collaborazione, pure creativa e
letteraria, ma pensando che esso non appartenesse all’Essere. Cercavo l’essere
come ciò che è e le cose mutevoli intuivo che per me erano pura
illusione. Avrei dovuto mettermi il cartellino sulla giacca. Con su scritto:
Appaio nel tutto scorre e sembro adatto a ciò ma cerco altro, cerco
quanto non muta, non scade come il latte, non si trasforma in qualcosa di
irriconoscibile, che sia luogo, parola, amore, fede. Non mi convince
Eraclito! Neanche la fisica moderna. E neppure la dòxa on line.
Quanto appare, diviene, muore, si trasforma, non è adatto a
me. Forse congeniale alla scrittura a cui tanto mi sono dedicato, forse
l’estetica non può che trattare questo flusso, però cerco qualcosa che è
Immutabile. Sempre vero. Indivisibile. Alétheia. Può formulare questo
proposito un umile Guardiano della mansarda? Un Poeta camionista? Forse sì!
cara Margherita. Forse sì. E se il web, e i miei weblog non sono altro che
apparenza, e che apparenza mi hanno portato, e atti e luoghi e momenti
consumati in un baleno di mesi, puoi anche capire che come il vecchio polacco
posso perdere questo Faro senza rimpianto perché sono preso da un’altra ricerca
che mi distoglie, che mi fa dimenticare il ruolo che ebbi. Mi hai spinto a
formulare una dispensa di facile filosofia sulla mia vita che servirà per
meditate scelte. Ti bacio il viso bello, che tu sia pronta a raggiungermi
a Pisa, che tu mi telefoni ogni giorno per starmi vicina, afferma che nel
nostro caso vince Parmenide, sei d’accordo? La mano ti viene data nel
bisogno da chi non fingeva nel Sogno. Facile rima, semplice verità.
Claudio detto Accio
2 marzo 2017
HENRYK SIENKIEWICZ
Accadde una volta che il guardiano del faro di Aspinwall,
località poco distante da Panama, scomparisse senza lasciare tracce, e poiché
c’era stata una grossa burrasca, si pensò che quello sventurato si fosse spinto
fino all’orlo del roccioso isolotto su cui s’eleva il faro restando travolto da
un’ondata. Questa ipotesi sembrò verosimile perché il giorno seguente non fu
ritrovata la barca che egli teneva nell’insenatura della scogliera. Rimase
pertanto vacante il posto di guardiano del faro, e s’imponeva di trovare
rapidamente qualcuno a cui affidarlo, dato che questo faro ha grande importanza
sia per la navigazione locale, sia per i vapori che da New York vanno a Panama.
Il golfo dei Mosquitos abbonda infatti di banchi di sabbia che rendono
complicata la navigazione anche di giorno; di notte poi, per la foschia che
spesso si leva da quelle acque riscaldate dal sole tropicale, è quasi
impossibile. Unica guida per le numerose navi è la luce del faro.
Toccava al console degli Stati Uniti, residente a Panama, il
cruccio di trovare un nuovo guardiano: impresa tutt’altro che semplice,
necessitava trovarlo nello spazio di dodici ore e il successore doveva essere
un uomo molto coscienzioso; non era possibile assumere il primo venuto e per di
più mancavano i candidati al posto.
La vita sulla torre del faro è solitamente difficile e non
si confà affatto alla svagata gente del Sud che ama il libero vagabondare. Il
guardiano del faro è quasi un prigioniero. Ad eccezione della domenica non può
assolutamente lasciare il suo frastagliato isolotto. Una volta al giorno, da
Aspinwall, una barca gli consegna provviste di viveri e acqua fresca, poi
subito si allontana e sull’isolotto, la cui estensione è minima, non vi è altri
che lui. Il guardiano abita nella torre del faro, ne cura la manutenzione; di
giorno fa le segnalazioni appendendo bandierine di diversi colori, seguendo le
indicazioni del barometro, e di notte accende la lanterna.
Non sarebbe un lavoro gravoso, se non ci fossero da salire
circa quattrocento scalini di una ripida scala a chiocciola per arrivare fino
al focolare, in cima alla torre; e questa salita il guardiano del faro la deve
ripetere parecchie volte al giorno. E’ una vita da monaco, anzi da eremita.
Non era quindi strano che il signor Izaak Folcombridge fosse
molto preoccupato nell’accingersi a cercare uno stabile successore al defunto
guardiano, e facilmente si comprenderà la sua gioia quando, quello stesso
giorno, inaspettatamente, il successore si presentò. Era un uomo già vecchio,
di settant’anni, o forse più, ma vigoroso, dal portamento eretto, che aveva
l’aspetto di un soldato. I suoi capelli erano tutti bianchi, la carnagione
abbronzata come quella dei creolo, ma dai suoi occhi si capiva che non
apparteneva alla gente del Sud. Il suo viso era travagliato e triste, ma aveva
un’espressione onesta. Fin dal primo momento piacque a Folcombridge. Gli
restava soltanto di saperne di più; tra i due si svolse così la seguente
conversazione:
- Di dove siete?
- Sono polacco.
- Che cosa avete fatto finora?
- Una vita errante.
- Il guardiano del faro deve stare volentieri sul suo
isolotto.
- Ho bisogno di riposo.
- Avete servito nell’esercito? Potete mostrarmi degli
attestati di servizio onestamente prestato allo Stato?
Il vecchio trasse da sotto la giacca il lembo di una serica
stoffa sbiadita che assomigliava a un brandello di vecchia bandiera, lo
dispiegò e disse: -Ecco i miei attestati. Questa croce l’ho avuta nel trenta.
Quest’altra è una croce spagnola, della guerra con i Carlisti; questa è la
Legion d’Onore, e questa l’ho avuta in Ungheria durante l’insurrezione del ’48.
Poi mi sono battuto negli Stati Uniti contro i Sudisti, ma là non hanno dato
croci, e perciò non ho un certificato.
Folcombridge prese il documento e cominciò a leggerlo.
-Uhm! Skawinski? E’ il vostro nome? Uhm!... Due bandiere
conquistate con le vostre mani in un attacco alla baionetta… Siete stato un
valoroso soldato!
- Saprò essere anche un coscienzioso guardiano del faro.
- Bisogna andare in cima alla torre parecchie volte al
giorno. Avete le gambe sane?
- Ho attraversato a piedi le pianure tra New York e la
California.
- All right! Conoscete il servizio marittimo?
- Ho servito tre anni sopra una baleniera.
- Avete sperimentato tanti mestieri!
- Soltanto la tranquillità non l’ho vissuta mai.
- Perché?
Il vecchio si strinse nelle spalle.
- E’ il mio destino…
- Tuttavia mi sembrate troppo anziano per diventare il
guardiano del faro…
- Sir! - esclamò improvvisamente Skawinski con
voce commossa - Sono molto stanco, esausto. Ne ho passate tante, vedete… Questo
posto è uno di quelli che più ardentemente ho desiderato. Sono vecchio, ho
bisogno di pace! Ho bisogno di dire a me stesso: qui finalmente potrai restare,
questo è il tuo porto. Ah, sir, dipende soltanto da voi! Un altro posto come
questo forse non lo troverei più. Che fortuna essermi trovato qui, a Panama… Vi
supplico!... Come amo Dio, credetemi: io somiglio a una nave che se non entra
nel porto affonda… Se volete fare felice un vecchio… Vi giuro che sono un uomo
onesto, ma… non ne posso più di questa vita randagia.
Gli occhi celesti del vecchio esprimevano una preghiera così
ardente che Folcombridge, il cui cuore era semplice e buono, si sentì commosso.
- Well - disse. - Vi assumo. Siete il guardiano
del faro.
Il viso del vecchio si illuminò di un’immensa gioia.
- Grazie.
Potete andare oggi stesso sulla torre?
- Sì.
- Allora Good bye! Ancora una parola: per qualsiasi mancanza
nel vostro servizio sarete licenziato.
- All right!
Quella sera stessa, quando il sole era già tramontato
dall’altra parte dell’istmo e alla giornata luminosa seguiva la notte senza
crepuscolo, il nuovo guardiano era evidentemente già al suo posto, perché il
faro gettava sul mare, come sempre, i suoi fasci di luce scintillante. Era una
notte assolutamente calma e silenziosa; una vera notte tropicale, soffusa in
una nebbia chiara che disegnava attorno alla luna un grande cerchio dai colori
dell’iride e dai bordi soffici e imprecisi.
Soltanto il mare era agitato per la crescente marea.
Skawinski stava immobile sulla porzione di roccia, poi accanto ai giganteschi
focolari del faro; dal basso lo si sarebbe detto un minuscolo punto nero.
Cercava di raccogliere le idee e di rendersi conto della sua nuova situazione,
ma il suo pensiero era ancora troppo oppresso, perché potesse svolgersi
regolarmente. Sentiva qualcosa di simile a ciò che deve provare una bestia
braccata quando alla fine riesce a rifugiarsi su una roccia inaccessibile o in
una grotta. Finalmente era giunta per lui l’ora, il tempo della pace. Una
sensazione di sicurezza colmava d’inesprimibile gioia l’anima sua. Sì, su
quello scoglio avrebbe potuto anche farsi beffe della passata vita nomade,
delle sventure e degli insuccessi di un tempo. Era davvero come una nave, a cui
la tempesta aveva spezzato gli alberi, strappato il sartiame e le vele,
sballottata dai venti in mezzo al mare; come una nave flagellata dalle onde che
tuttavia era riuscita a entrare nel porto.
Le immagini di quella tempesta affioravano ora l’una dopo
l’altra nella sua mente, in contrasto col tranquillo avvenire che stava per
iniziare. A Folcombridge aveva raccontato soltanto una parte delle sue
singolari vicende, ma non aveva tuttavia accennato alle centinaia di altre
avventure della sua vita.
Ogni volta che piantava la sua tenda e accendeva il
focolare, per fissarsi definitivamente in un luogo, egli aveva la sfortuna che
il vento abbatteva i pioli della tenda, disperdeva il fuoco e trascinava lui
stesso alla rovina. Guardando ora dalla terrazza della torre le onde
illuminate, ricordava tutto ciò che aveva passato.
Si era battuto nelle quattro parti del mondo, e nella sua
vita errante aveva provato quasi tutti i mestieri. Laborioso e onesto, era
riuscito talvolta a mettere da parte un po’ di denaro, ma l’aveva sempre
perduto, contrariamente a tutte le previsioni e nonostante la maggiore
prudenza. Era stato cercatore d’oro in Australia, di diamanti in Africa;
cacciatore del governo nelle Indie Orientali. Quando, più tardi, aveva creato
una fattoria in California, la siccità l’aveva rovinato; aveva provato a
commerciare con le tribù selvagge che abitavano nell’interno del Brasile: la
sua chiatta si era fracassata sul Rio delle Amazzoni, e aveva errato, inerme e
quasi nudo, per alcune settimane nelle foreste, nutrendosi di frutti selvatici,
rischiando ad ogni momento di finire nelle fauci delle belve. Aveva inventato
una botteguccia ad Elena, nell’Arkansas; era era stata distrutta nel grande
incendio della città; poi nelle Montagne Rocciose era caduto nelle mani degli
indiani, e solo per miracolo era stato salvato da alcuni cacciatori canadesi.
Aveva fatto il marinaio sopra una nave che faceva rotta tra Bahia e Bordeaux,
poi era stato ramponiere su di una baleniera: entrambe le navi erano andate a
picco. Era stato padrone di una fabbrica di sigari all’Avana, e il suo socio
l’aveva derubato, mentre lui giaceva ammalato di vomito.
Finalmente era arrivato ad Aspinwall, e qui doveva essere la
fine dei suoi insuccessi. Che cosa avrebbe potuto raggiungerlo ancora su
quell’isolotto roccioso? Né l’acqua, né il fuoco, né gli uomini. Dagli uomini,
del resto Skawinski non aveva avuto molto male; ne aveva incontrati anzi più
spesso di buoni che di cattivi. Sembrava invece che tutti i quattri elementi lo
perseguitassero. Quelli che lo conoscevano, dicevano che non aveva fortuna, e
con questo spiegavano tutto. Lui stesso, del resto, era diventato un po’ folle:
era convinto che un’entità potente e vendicativa lo perseguitasse dovunque, su
tutti i continenti, su tutti i mari. Non gli piaceva tuttavia parlare di queste
cose; talvolta quando gli chiedevano quale potesse essere questa entità, indicava
soltanto con aria misteriosa un’opaca stella lontana, e diceva che tutto veniva
di là… In realtà le sue sventure erano state così continue, da apparire
inspiegabili e bizzarre, e potevano facilmente far nascere delle fissazioni in
chi ne era vittima. In ogni caso egli aveva la pazienza di un indiano e quella
grande e calma forza di resistenza che deriva dalla rettitudine del cuore.
Una volta, in Ungheria, aveva ricevuto parecchi colpi di
baionetta, perché non aveva voluto afferrarsi alla staffa che gli veniva
indicata come mezzo di salvezza, e gridare pardon. Nello stesso modo non si
arrendeva alla sventura. Si arrampicava con la perseveranza di una formica;
cento volte ricacciato indietro, riprendeva da capo il suo viaggio per la
centesima volta. Egli era, nel suo genere, un tipo davvero singolare. Quel
vecchio soldato dal volto abbronzato in Dio sa quante battaglie, temprato nelle
avversità, picchiato e incatenato aveva il cuore di un fanciullo. Durante una
epidemia a Cuba si era ammalato perché aveva dato tutto il suo chinino agli
altri, senza tenerne per sé, della considerevole provvista che aveva, neanche
un grammo.
In lui c’era anche questo di strano: dopo tante delusioni
era ancora pieno di fiducia, e non perdeva speranza che tutto, un giorno,
sarebbe andato bene. Nell’inverno si rianimava sempre e prediceva dei grandi
avevnimenti. Li attendeva con ansia, e pensando ad essi viveva per anni interi…
Ma gli inverni passavano, l’uno dopo l’altro, e per Skawinski non portarono
altro che la canizie che gli imbiancava il capo.
Finalmente invecchiò e cominciò a perdere la sua energia. La
pazienza assomigliava sempre più alla rassegnazione. L’antica calma si
trasformò nell’inclinazione all’intenerimento, e quel veterano dall’animo
temprato era facile alla commozione, pronto ad addolcirsi per qualsiasi cosa.
Oltre a questo, di tanto in tanto, si sentiva oppresso da
una profonda nostalgia, che ogni circostanza poteva rendere acuta: la vista
delle rondini, di una specie di uccelli grigi che somigliavano ai passeri, la
neve sulle montahne, una melodia che assomigliava a qualche altra ascoltata un
tempo…
Alla fine un solo pensiero lo dominava: riposarsi. Questo
pensiero si era impadronito di lui, interamente; aveva assorbito tutti gli
altri desideri, tutte le altre speranze. L’eterno randagio non riusciva a
sognare nulla di più profondamente anelato, nulla di più prezioso di un
cantuccio tranquillo in cui poter riposare e attendere in pace la fine.
Forse perché la bizzarria del destino l’aveva gettato per
tutti i mari e per tutti i paesi, senza che quasi avesse la possibilità di
riprendere fiato, egli s’immaginava che la maggiore felicità umana fosse quella
di non andare per il mondo vagando. Aveva davvero diritto a una felicità tanto
modesta, ma abitutao com’era alle delusioni, vi pensava come gli uomini pensano
generalmente alle cose irraggiungibili. Attenderla, quella felicità, non osava.
E invece, inaspettatamente, nello spazio di dodici ore, aveva trovato l’impiego
che averbbe scelto tra quanti ce ne sono al mondo.
Non c’era nulla di strano dunque, se quella sera, accendendo
il faro fosse come inebriato, e che domandando a se stesso se era proprio vero,
non avesse il coraggio di rispondere “sì”. Ma la realtà gli parlava con delle
prove inconfutabili; così, sulla terrazza, passarono per lui le ore, l’una dopo
l’altra. Guardava, saziava l’anima sua, si persuadeva che tutto era vero.
Sembrava che per la prima volta vedesse il mare.
Gli orologi di Aspinwall avevano già suonato la mezzanotte,
ed egli non aveva ancora abbandonato la sua posizione e continuava a fissare lo
sguardo lontano. In basso, ai suoi piedi, scrosciava il mare. La lente del faro
gettava nell’oscurità un gigantesco cono di luce, oltre il quale gli occhi del
vecchio si perdevano in una lontananza di tenebre, misteriosa e terribile. Ma
quella lontananza sembrava correre verso la luce. Ondate lunghe forse un
chilometro si precipitavano dalle tenebre. E quando ruggendo arrivavano fino ai
piedi dell’isolotto, egli scorgeva i flutti spumosi scintillare di un colore
rosato nella luce del faro. La marea continuava a crescere e sommergeva i
banchi di sabbia. Il misterioso linguaggio dell’oceano si faceva sempre più
posente e fragoroso; ora simile al rombo di cannoni, ora allo stormire di
gigantesche foreste, ora a un vocìo umano lontano e confuso. Per un istante
tutto sembrava tacere, poi agli orecchi del vecchio risuonavano come dei
profondi sospiri, poi dei singhiozzi, e di nuovo improvvisi, minaccioso
fragori. Finalmente il vento disperse la nebbia, ma sospinse delle nuvole nere
i cui brandelli coprirono la luna. Da occidente il vento soffiava sempre più
forte. Le onde si precipitavano con furia contro lo scoglio del faro e con la
loro schiuma ne lambivano le fondamenta. In lontananza brontolava la tempesta.
Sulla distesa oscura e burrascosa si accesero delle luci verdi; erano le
lanterne appese agli alberi della navi. Quei puntini verdi ora salivano in
alto, ora precipitavano in basso, o oscillavano a destra e a sinistra.
Skawinski discese nella sua stanza. La tempesta ululava;
laggiù, su quelle navi, degli uomini lottavano contro la notte, contro le
tenebre, contro le onde. Nella stanza tutto invece era tranquillo e c’era il
silenzio. Persino l’eco della tempesta penetrava debolmente attraverso le
spesse mura, e il ritmico tic-tac dell’orologio sembrava cullare il sonno del
vecchio affaticato.
II
Passavano le ore, i giorni, le settimane…
I marinai affermano che quando il mare è molto agitato si sente talvolta nelle
tenebre della notte una voce che li chiama per nome. Se l’infinito del mare può
chiamarsi così, può darsi, quando un uomo si fa vecchio, che un altro infinito
lo chiami, un infinito ancora più oscuro e misterioso, e che a lui quei
richiami siano tanto più cari quanto più è stanco della vita. Ma per ascoltarli
occorre il silenzio. Del resto la vecchiaia ama isolarsi, come nel
presentimento della tomba.
Il faro era ormai per Skawinski quasi come una tomba. Non vi è nulla di più
monotono di una simile vita: i giovani, se vi si adattano, dopo poco tempo abbandonano
il servizio, così il guardiano del faro è di solito un uomo anziano, cupo e
chiuso in se stesso. Quando, per caso, lascia la sua torre e va tra la gente,
cammina in mezzo ad essa come un uomo che si è destato da un profondo sonno.
Sulla torre mancano quelle tenui sensazioni che nella vita insegnano ad
adeguare ogni cosa a se stessi. Il guardiano è a contatto con ciò che è
sconfinato e privo di forme definite. Il cielo: un’unità immensa; il mare,
un’altra, e tra queste due immensità un’anima solitaria. In questa vita il
pensiero è assorto, in una continua contemplazione, da cui nulla, nemmeno il
lavoro, può strappare il guardiano del faro. I giorni si assomigliano come i
grani di un rosario; l’unica diversità è nel variare del tempo.
Skawinski si sentiva tuttavia tanto felice come non lo era mai stato in tutta
la sua vita. Si levava all’alba, faceva colazione e, dopo aver pulito le lenti
del faro, si sedeva sulla terrazza a contemplare il mare nella sua lontananza
infinita, e il suo sguardo non si saziava mai delle immagini che aveva dinanzi
a sé.
Sull’immenso sfondo azzurro c’erano quasi sempre greggi di vele gonfie che
scintillavano sotto i raggi del sole con un tale sfavillio che costringeva a
socchiudere gli occhi.
Talvolta le navi, approfittando dei venti che chiamavano alisei, navigavano
l’una dietro l’altra, simili a file di gabbiani o di albatri. Le boe dipinte di
rosso che indicavano la rotta si dondolavano sulle onde con un movimento
tranquillo e leggero.
Tra quelle vele si alzava sempre a mezzogiorno un gigantesco pennacchio di fumo
grigio: era il vapore che trascinandosi dietro una lunga scia di schiuma
arrivava ad Aspinwall da New York col suo carico di merci e di passeggeri.
Dall’altra parte della terrazza Skawinski vedeva, come se fossero sul palmo
della mano, Aspinwall e il suo porto pieno di movimento, la selva degli alberi
delle navi, i battelli e le barche; un po’ più lontano, le bianche case e le
sottili torri della città. Dall’alto del faro quelle casette sembravano nidi di
gabbiani e le barche scarabei; gli uomini si muovevano come minuscoli puntini
lungo il corso lastricato di pietre candide.
Al mattino l’alito leggero del vento che veniva dall’est portava il brusio
confuso degli uomini squarciato di tanto in tanto dal sibilo dei piroscafi.
A mezzogiorno era il momento della siesta: il movimento del porto cessava, i
gabbiani si nascondevano nelle fenditure delle rocce, le onde diventavano più
lente, quasi impigrite, e sulla terra, sul mare e sul faro scendeva un silenzio
che niente turbava. Le sabbie gialle che le onde, ritirandosi, avevano
scoperto, scintillavano come macchie d’oro disseminate sul mare; la torre si
stagliava nitida nell’azzurro; torrenti di raggi solari si rovesciavano dal
cielo sulla terra, sulle sabbie e sulla scogliera.
Allora una sensazione piena di dolcezza e di abbandono s’impadroniva del
vecchio guardiano del faro; sentiva tutto il benessere di quel riposo, e,
pensando che sarebbe durato sempre, diceva a se stesso che più nulla gli
mancava.
Skawinski si immergeva nella sognante contemplazione della propria felicità; e
poiché l’uomo si abitua facilmente a un migliore destino, rinascevano in lui a
poco a poco la fiducia e la speranza. Pensava infatti che se gli uomini
costruiscono le case per gli invalidi, perché Dio non avrebbe dato finalmente
un ricovero a questo suo invalido?
Il tempo che fluiva rafforzava in lui questa fiducia. Il vecchio si era
abituato alla torre, al faro, alla scogliera, ai banchi di sabbia e alla
solitudine. Aveva fatto amicizia anche con i gabbiani che deponevano le uova
nelle fenditure delle rocce e che ogni sera tenevano consiglio sul tetto del
faro. Skawinski gettava loro ogni giorno i resti del suo cibo e adesso, tanto
si erano abituati a lui, che gli venivano intorno: un vero turbinio di ali
candide circondava il vecchio che andava e veniva tra quegli uccelli come il
pastore tra le pecore.
Quando c’era la bassa marea, faceva delle spedizioni sui banchi di sabbia e
raccoglieva i gustosi molluschi e le perlacee conchiglie dei nautili che le
onde, ritirandosi, avevano lasciato. Di notte alla luce della luna e del faro
andava a pescare nelle insenature della scogliera che brulicavano di pesci.
Si era ormai affezionato a quella roccia ed al suo isolotto senza alberi, dove
crescevano soltanto piccole piante grasse che stillavano una resina vischiosa.
La povertà dell’isolotto era del resto compensata dalla possibilità di ammirare
gli orizzonti più lontani.
Nel pomeriggio, quando l’atmosfera si faceva più trasparente, Skawinski
abbracciava con lo sguardo tutto l’istmo, sino al pacifico, coperto di una
lussureggiante vegetazione. Gli sembrava allora di vedere un immenso giardino:
gruppi di alberi di cocco e gigantesche palme formavano dietro le case di
Aspinwall grandi mazzi a pennacchi; un po’ più lontano, tra Aspinwall e Panama
si stendeva una foresta immensa su cui ogni mattina e al calare della notte si
alzava un vapore rossastro; era una vera foresta tropicale lambita dall’acqua
stagnante, intrecciata di liane, frusciante in un unico immenso ondeggiare di
orchidee, di palme, di alberi del latte e della gomma.
Col suo cannocchiale di servizio il vecchio poteva scorgere non soltanto gli
alberi e le larghe foglie dei banani, ma persino gruppi di scimmie, di grandi
marabù e stormi di pappagalli che di tanto in tanto si alzavano sulla foresta,
simili al veleggiare di una nuvola dai colori dell’arcobaleno.
Skawinski conosceva bene quelle foreste: dopo il naufragio sul Rio delle
Amazzoni aveva errato per settimane e settimane sotto volte verdi simili a
quella e tra il folto della boscaglia. Sapeva che quella appariscenza
meravigliosa e ridente nascondeva il pericolo e la morte. Nelle notti lì
trascorse aveva sentito da vicino le voci sepolcrali delle scimmie urlatrici e
il ruggito dei giaguari; aveva visto serpenti enormi dondolarsi sui rami come
liane; conosceva bene quei laghi della foresta, sonnolenti e pieni di torpedini
e di coccodrilli. Sapeva sotto quale giogo vivesse l’uomo in quelle foreste
impenetrabili, dove ogni foglia supera di dieci volte la sua statura, dove
sciami di zanzare succhiano il sangue e su ogni albero ci sono ragni velenosi e
sanguisughe.
Tutto questo egli l’aveva conosciuto e sofferto; così ora il piacere che
provava, guardando dall’alto quelle foreste, era tanto più grande; ne ammirava
la bellezza sentendosi al riparo dalle loro insidie. La sua torre lo difendeva
da ogni male; egli la lasciava soltanto qualche volta, la domenica mattina;
indossava allora il suo cappotto di servizio, che era blu scuro con i bottoni
d’argento; appuntava sul petto le sue croci di guerra, e quando uscendo dalla
chiesa sentiva i creoli dire tra di loro: “Abbiamo come guardiano del faro una
persona per bene, e non un eretico, benché sia uno yankee”, Skawinski alzava la
testa bianca con una certa fierezza.
Tuttavia , dopo la messa, tornava subito sul suo isolotto, e vi tornava felice
perché non si fidava ancora della terraferma.
La domenica leggeva il giornale spagnolo che comprava in città o l’Herald di
New York che gli prestava Folcombridge, e cercava con ansia le notizie
dall’Europa. Povero vecchio cuore! Su quella torre, nell’altro emisfero,
batteva sempre per il suo paese… Talvolta quando la barca che gli portava ogni
giorno i viveri e l’acqua arrivava all’isolotto, Skawinski scendeva dalla sua
torre per fare quattro chiacchiere con la guardia John.
Ma col passare del tempo si era inselvatichito: non andava più in città, non
leggeva i giornali e non scendeva più dalla torre per discutere di politica con
John. Per settimane intere nessuno lo vedeva: l’unico segno che il vecchio era
vivo era la scomparsa dei viveri che lasciavano per lui sulla riva e la luce
del faro che si accendeva tutte le sere con la stessa regolarità con cui in
quei paesi il sole sorge ogni mattino sul mare.
Era chiaro che al vecchio il mondo non interesssava più. E non la nostalgia era
la causa di questa indifferenza, ma il suo trasformarsi in rassegnazione.
Adesso il mondo intero cominciava e finiva per lui su quell’isolotto. Si era
ormai familiarizzato all’idea che non avrebbe lasciato la torre fino alla
morte, e aveva semplicemente dimenticato che oltre ad essa esisteva ancora
qualcosa. Inoltre era diventato mistico. I suoi miti occhi celesti
assomigliavano sempre più a quelli di un bambino, eternamente assorti in una
lontananza indefinita.
Nel continuo isolamento, circondato da cose straordinariamente semplici ma
grandi, il vecchio cominciò a perdere la consapevolezza della propria
individualità; quasi non esisteva più come persona, ma si confondeva sempre più
con tutto ciò che lo circondava. Non rifletteva su questo, ma lo sentiva
inconsciamente, tanto che alla fine gli parve che il cielo, l’acqua, il suo
scoglio, la torre, i banchi dorati di sabbia, le vele gonfie e i gabbiani, le
basse e le alte maree non fossero che una grande unità, un’unica immensa anima
misteriosa; ed egli s’inabissava in quel mistero e sentiva quell’anima vivere e
placarsi. Si abbandonò, si lasciò cullare e dimenticò se stesso; e in quella
limitazione della propria esistenza individuale, in quello stato che era tra la
veglia e il sonno, egli aveva trovato una pace così profonda che quasi
assomigliava alla morte.
III
Ma venne il risveglio.
Un giorno, quando la barca gli ebbe portato l’acqua e la provvista di viveri,
Skawinski, sceso un’ora più tardi dalla torre, si accorse che oltre il solito
carico c’era anche un pacco. Sulla grossa tela che l’avvolgeva c’erano dei
francobolli degli Stati Uniti e, scritto, a caratteri chiari, l’indirizzo:
“Skawinski Esquire”.
Incuriosito il vecchio tagliò la tela e vide dei libri; ne prese uno in mano,
lo guardò, poi lo rimise con gli altri, mentre le mani cominciavano a tremargli
sempre più fortemente. Si coprì gli occhi come se non potesse credere a ciò che
vedeva; gli sembrava di sognare: il libro era polacco.
Che cosa significava tutto cio? Chi aveva potuto mandargli quel libro? S’era
dimenticato che all’inizio della sua nuova professione di guardiano del faro
aveva letto nell’Herald, prestatogli dal console, che a New York era stata
fondata un’Associazione Polacca, e che vi aveva mandato subito la metà del suo
stipendio mensile di cui, del resto, sulla torre non sapeva che farsene.
L’Associazione, per ringraziarlo, gli mandava dei libri. Erano arrivati per la
via più naturale, ma sulle prime il vecchio non fu in grado di coordinare le
idee. Dei libri polacchi ad Aspinwall, sulla sua torre, in quella
solitudine!... Era una cosa tanto straordinaria, quasi un soffio dei tempi
lontani che veniva a lui; un miracolo. Gli pareva adesso che come quei marinai
che navigano nella notte, anch’egli udisse una voce chiamarlo per nome, una
voce molto amata, che quasi più non ricordava.
Rimase qualche istante con gli occhi chiusi, quasi sicuro che, quando li
avrebbe riaperti, il sogno sarebbe svanito. Ma no! Il pacco disfatto era sempre
dinanzi a lui, illuminato dai bagliori del sole pomeridiano, e sopra il pacco,
il libro aperto. Quando il vecchio allungò la mano per prenderlo, udì nel
silenzio che era intorno a lui il battito del suo cuore. Lo guardò: erano
versi. Sulla copertina, in altro, scritto a grossi caratteri c’era il titolo,
e, in basso, il nome dell’autore. Quel nome non era sconosciuto a Skawinski:
sapeva che era quello di una grande poeta, Adam Mickiewicz, di cui a Parigi,
dopo il 1830 aveva letto le opere.
Più tardi, quando stava combattendo in Algeria e in Spagna, aveva saputo dai
compatrioti della crescente fama del grande poeta, ma a quell’epoca era tanto
abituato alla carabina, che i libri non li prendeva in mano. Nel ’49 era
partito per l’America, e nella sua vita avventurosa non aveva quasi mai
incontrato dei polacchi, e mai aveva trovato dei libri polacchi. Con tanta
maggiore ansia e col cuore che gli batteva sempre più forte voltò la prima
pagina.
Gli parve allora che sul suo scoglio solitario cominciasse a svolgersi qualcosa
di solenne. E c’era in quel momento un grande silenzio e un’immensa pace. Gli
orologi di Aspinwall avevano suonato le cinque pomeridiane. Sul cielo limpido
non c’era la più piccola nube; soltanto alcuni gabbiani volteggiavano nell’azzurro.
L’oceano era come sopito, e le onde lambivano la riva con un mormorio sommesso
che si scioglieva dolcemente sulla sabbia. In lontananza sorridevano le chiare
case di Aspinwall e i meravigliosi gruppi di palme. Tutt’intorno c’era
veramente qualcosa di solenne, una quiete profonda.
Ad un tratto, in mezzo a quella pace della natura, risuonò la voce del vecchio
che scandiva le parole come per capire meglio se stesso:
Zaosie, patria mia, tu sei come la salute!
Quanto si debba stimarti solo apprende colui che t’ha
perduta.
Oggi la tua bellezza in tutto il suo splendore
io vedo e descrivo perché mi struggo in te…
La voce gli si spezzò. Dinanzi ai suoi occhi le lettere cominciarono a
saltellare; nel petto qualcosa si era squarciato e saliva dal cuore come un’ondata,
saliva sempre più in alto fino a soffocargli la voce e gli serrava la gola… Un
istante ancora: poi si dominò e riprese a leggere:
Vergine Santa che difendi la luminosa Czestochowa
e risplendi sull’Ostrobrama! Tu che proteggi
la città di Nowogròdek col suo popolo fedele!
Come a me, fanciullo, rendesti la salute
(quando dalla madre piangente posto
sotto la tua tutela sollevai la spenta palpebra
e subito potei al Tuo Santuario
recarmi a render grazie a Dio della vita che m’avevi ridata)
così ne riconduci, con un miracolo, in seno alla Patria…
La travolgente ondata che gli era salita dal cuore fece crollare l’argine della
volontà. Il vecchio con un urlo si gettò per terra, e i suoi candidi capelli si
confusero con la sabbia della riva. Sì, erano quasi quarant’anni che non aveva
più visto il suo paese, e Dio sa quanti ne erano passati senza che avesse udito
la lingua materna! Ed ecco che ora quella lingua era venuta a lui, aveva varcato
l’oceano e l’aveva trovato solitario sull’altro emisfero, cara lingua materna,
tanto amata, tanto bella! Nei singhiozzi che lo scuotevano non c’era dolore, ma
soltanto un amore infinito, a un tratto ridestato; un amore dinanzi al quale
nulla più contava…
Con quel suo gran pianto chiedeva all’amata lontana di perdonarlo, di essere
così vecchio, di essersi abituato a quello scoglio solitario. Di aver tanto
dimenticato che anche la nostalgia in lui si stava spegnendo.
E adesso ”tornava a lei per miracolo”, e il cuore gli scoppiava nel petto. I
minuti passavano, ed egli continuava a giacere a terra. I gabbiani volavano sul
faro, con un garrito acuto, come se fossero inquieti per il loro vecchio amico.
Si avvicinava l’ora in cui gettava loro i resti del suo cibo, e alcuni di essi
si precipitarono dalla cima del faro sino a lui. Poi ne vennero degli altri e,
sempre più numerosi, presero a beccarlo leggermente agitando le ali al di sopra
della sua testa.
Quel fruscio lo ridestò. Aveva pianto tuttte le sue lacrime ed ora il suo viso
era come illuminato da una profonda espressione di pace e i suoi occhi
sembravano ispirati. Quasi senza rendersene conto gettò tutto il suo cibo agli
uccelli, che vi si precipitarono sopra garrendo, e riprese il libro. Il sole
era già passato sopra i giardini e sulla foresta vergine di Panama, ed ora
scendeva lentamente dietro l’istmo, verso l’altro oceano, ma l’Atlantico era
ancora pieno di bagliori. All’aperto era ancora chiaro, così il vecchio riprese
a leggere:
Trasporta intanto l’anima mia nostalgica
A quei boscosi colli, a quei verdi prati…
Il crepuscolo cancellò a un tratto le lettere sulle pagine bianche, un
crepuscolo breve come un battere di ciglia. E allora “Quella che difende la
luminosa Czestochowa” prese l’anima di lui e la trasportò “su quei campi che le
messi variamente colorano”.
Nel cielo ardevano ancora lunghe scie di porpora e d’oro, e in quelle luci egli
volava verso le terre amate. Udiva lo stormire dei boschi di pini, il mormorio
dei fiumi del suo paese. E tutto egli scorge, tutto com’era. Ogni cosa gli
chiede: “Ricordi?” Oh, come ricordava! Anzi vedeva: campi vasti, sentieri,
prati e villaggi.
Era già notte! A quell’ora di solito il suo faro gettava la luce sull’oscurità
del mare; ma adesso egli è nel villaggio nativo… Con la testa bianca curva sul
petto sogna. Le immagini si susseguono rapide e un po’ disordinate dinanzi ai
suoi occhi. Non vede la casa paterna, perché l’ha distrutta la guerra del
1830-31 contro la Russia; non vede né il padre né la madre, morti quando era
ancora un bambino; ma il villaggio è sempre lo stesso come se l’avesse lasciato
ieri: la fila delle capanne con i lumini alle finestre, l’argine, il mulino, i
due stagni, l’uno di fronte all’altro, dove tutta la notte risuonavano i cori delle
rane.
Una volta, nel suo villaggio, era stato di sentinella, e ora quel passato
risorge in un susseguirsi di immagini. Ecco, è di nuovo ulano, è di sentinella:
di lontano la bettola guarda con i suoi occhi fiammeggianti, e suona e canta e
scroscia nel silenzio della notte il battere dei tacchi di quelli che danzano,
il suono dei violini e delle viole: “Uh, ah! Uh, ah!” sono gli ulani che fanno
sprizzare scintille dai tacchi ferrati, e lui, solo, a cavallo, si annoia. Le
ore si trascinano pigre, finalmente le luci si spengono; adesso, fin dove
arriva lo sguardo non c’è che nebbia; una nebbia impenetrabile: il vapore si
alza dai prati e sommerge il mondo intero. Si direbbe un vero oceano; e invece
sono i prati: tra poco la gallinella si farà sentire nell’oscurità e i tarabusi
strepiteranno nei canneti. E’ una notte tranquilla e fredda, una vera notte
polacca. S’ode lontano come un’onda del mare il sussurrio del bosco dei pini,
eppure non c’è vento… Tra poco l’alba imbiancherà l’oriente: e i galli già cantano
dalle staccionate. Si danno la voce da una capanna all’altra; anche le gru
dall’alto cominciano a far sentire il loro grido. L’ulano si sente forte, pieno
di vita. Qualcuno ha parlato della battaglia di domani. Ehi! Ci andrà come
andranno gli altri, fra grida e lo sventolare delle bandiere! Il suo giovane
sangue sussulta come se chiamasse alla caccia, anche se l’alito della notte lo
raffredda. Ma è già l’alba, l’alba!
La notte impallidisce, e dall’oscurità emergono i boschi, le macchie, la lunga
fila di capanne, il mulino, i pioppi. Cigolano i pozzi come la banderuola di
latta che è sulla torre . Quanto è cara questa terra! Come è bella nella luce
rosata dell’aurora! Oh, tu sola, unica! Silenzio! La vigile sentinella avverte
che qualcuno si avvicina. Certo è per cambiare la guardia.
Ad un tratto una voce risuona sopra il capo di Skawinski:
- Eh, vecchio! Alzatevi! Cosa vi succede?
Il vecchio apre gli occhi e guarda con stupore l’uomo che è in piedi vicino a
lui. Quel tanto di sonno e le visioni che sono ancora in lui lottano nella sua
testa con la realtà. Alla fine le visioni impallidiscono e scompaiono. Dinanzi
a lui è John, il guardiano del porto.
- Che avete? - gli chiede. - Siete malato?
- No.
- Non avete acceso il faro. Sarete licenziato dal vostro servizio. Una barca da
San Geromo si è fracassata su di un banco di sabbia; per fortuna non è annegato
nessuno, altrimenti sareste andato sotto processo. Venite con me; il resto lo
sentirete al consolato.
Il vecchio impallidì: era vero, quella notte non aveva acceso il faro. Alcuni
giorni dopo Skawinski fu veduto a bordo di una nave che da Aspinwall andava a
New York. Quell’infelice aveva perduto il posto. Dinanzi a lui si aprivano
nuove strade di vita errante; il vento aveva ancora una volta strappato quella foglia
per gettarla sui continenti e sui mari, per incrudelire a suo capriccio. E in
quei pochi giorni Skawinski era molto invecchiato; era più curvo, ma i suoi
occhi scintillavano. Per le nuove strade della vita portava sul petto il suo
libro, e di tanto in tanto lo serrava contro di sé come se temesse di perdere
anche quello…
Traduzione di Margherita Stein
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