MEDARDO ROSSO IN “VISTI DA VICINO” DI LEONETTA
PIERACCINI
Archeologia Editoriale Transmoderna a cura di Claudio Di Scalzo
Cecchi Pieraccini Leonetta. - Pittrice italiana (Poggibonsi
1883 – Roma 1977), moglie di Emilio
Cecchi. Allieva di G. Fattori e di A. Spadini , ha dipinto, fra l'altro,
ritratti di artisti e di letterati, di alcuni dei quali ha anche rievocato
ricordi biografici in Visti da vicino (1952). Ha pubblicato: Vecchie agendine
(1911-1929), 1960, e Agendina di guerra (1939-1944), 1964.
Il titolo di una fortunata serie di ritratti scritti e pubblicati da Giulio Andreotti , e Tellusfoglio lo rivela, è stato “rubato” a Leonetta Cecchi Pieraccini che in un libro pubblicato da Vallecchi nel 1952 descriveva i suoi incontri con artisti e poeti. Contiamo di riproporli, almeno i più significativi, iniziando da Medardo Rosso. (2006)
MEDARDO ROSSO
17 Luglio 1914. Caldo
asfissiante. Medardo Rosso, di passaggio per Roma, non cede alla tentazione di
una siesta dopo colazione: ha appena finito di mangiare che monta sopra una
carrozzella e si fa condurre alla nostra abitazione, in fondo a via Nomentana.
Traversa a piedi un giardino bruciante di sole, sale centoventicinque scalini e
si trova, alfine, in una stanza ombrosa, mezzo disfatto dall’asma e dal calore.
Mio marito è di là che dorme. Io
rammendo il bucato e intanto riposo il mio pancione, il quale fa concorrenza,
per un fatto fisiologico, di natura diversa, con quello dell’impreveduto
visitatore, così congestionato da farmi temere di vederlo stramazzare al suolo,
mentre sbuffa come un mantice, e con grandi gesti e grandi fazzoletti si
asciuga la testa, la faccia, il collo. Quando si è finito di raccapezzare nel
buio della stanza, mi scorge, e senza interrompere la sua toeletta, dice
brevemente:
“Sono Rosso”.
Io non lo conosco di persona, e
che è rosso lo vedo. Rimango un momento perplessa.
“Sono Roseo”, egli ripete
laconicamente.
“Ah, lei è Medardo Rosso “. Mio
marito è svegliato di urgenza: riconoscimenti, feste; saluti, informazioni.
Vuotato il sacco delle notizie il colloquio sdrucciola sul tema dell’arte e la
conversazione condotta su argomenti tanto ardenti, dalle ore canicolari arriva
di volo alle ore della brezza serotina, sulla rotonda, di una trattoria a Ponte
Nomentano.
Lo scultore, in quel suo curioso
gergo italo-franco-milanese, framezzato di poderosi: “Cristo!”, rifà la storia
della sua conversione all’impressionismo. Anzi del suo unico precorrere
l’impressionismo in scultura. Quelli venuti dopo di lui lo hanno “saccheggiato”.
“Hanno fatto come i borsaioli che
rubano un portamonete ad un buon diavolo e si accorgono dopo, con rammarico,
che la vittima è un povero rispettabile dabbenuomo. Ma intanto vogliono
dividersi il piccolo bottino e ognuno cerca di farsi la parte più grossa”.
I suoi convincimenti artistici si
affermarono molto presto. Era ragazzo e studiava i classici in un Museo di
Milano. Un giorno, egli racconta, in un momento di riposo e di malcontento, si
era appoggiato al piedistallo di una statua e guardava davanti a sé, nel vuoto
del lungo corridoio. Tutt’a un tratto la sua attenzione fu attirata da un
gruppo di persone che si avanzava.
“La luce investiva quelle figure
e creava due masse distinte, ugualmente possenti. Una di luce, sui corpi, una
di ombra sul terreno. Appena le figure uscivano dal raggio della luce, subito
le due masse si spegnevano nel grigiore dell’ambiente. Rientravano nella luce e
subito balzava il loro risalto. Io pensai: potrei toccare quei corpi. Non
potrei invece toccare quell’ombra. Eppure essa è viva e assoluta come il corpo
che posso palpare”.
Da allora Rosso non pensò che a
realizzare il suo ideale plastico. Creare, cioè in scultura, la tonalità. Dare
delle impressioni ottiche; non tattili.
“La grande statua, quella alla
quale tu giri intorno, è uno sbaglio. Tu domandi anche ad un ragazzo: - Che
t’ha detto? - Ma! è rimasto come una statua! - Vedi: l’intelligenza istintiva
che afferra di colpo la verità”.
I monumenti, i gruppi statuari,
le statue in genere, erano per lui inconcepibili: li chiamava i presse-papiers.
All’inaugurazione della mostra del Novecento, a Milano, dinanzi alle sculture
del Wildt si era messo a gridare, in dialetto, rivolto al Carrà: “La fabbrica
delle pipe ha invaso il Palatino”. Quindi credeva necessario spiegare: “Hai
capito l’allusione? La Suburra ha invaso il Palatino”.
Del resto tutte le opere d’arte
di grande mole, anche letterarie, gli davano fastidio: “Bisogna far pensare un
quadro, un poema; non farlo. Ci sono parole, ma c’è una parola; ci sono toni,
ma c’è un tono, indimenticabili, sui quali si riflette, e si crea noi stessi,
rimeditandoli. E ci sono grandi quadri, lunghe liriche di cui nulla resta e
nulla importa. Se un artista ha da dirti una cosa, non valgono i molti discorsi.
Perché mi vuoi far leggere un libro se quello che hai da dirmi è una frase? Ah,
mes amis, lavorare n’est pas un amusement. E tu riesci a fare quando neanche tu
sai quel che riesci a fare”.
Anche la convenzionalità secolare
di certe immagini era contraria alle sue teorie. «Ma se io guardo la gente la
vedo con i suoi vestiti belli e brutti; con le sue espressioni di gioia e di
dolore, con le sue attitudini di riposo e di movi-mento: e penso che la gente
così ci sarà stata sempre, nel mondo. O com’è che gli artisti non l’hanno vista
e hanno fatto tutti quei santi che si vedono nei musei? Sapristi! i veri santi
siamo noi. A Venezia io ho esposto la portinaia col titolo: Sant’Orsola; il
bambino malato col titolo: San Giovannino, e via così; per dare una lezione”.
Malgrado il suo disprezzo per i
santi e le famigerate statue a tutto tondo, egli le doveva ben avere amate e
studiate in gioventù, se le aveva imitate fino al punto di riuscire un
falsificatore di gran classe. Una volta scolpì un Donatello con tanta abilità
che un esperto del British Museum non
indugiò a comprare l’opera e a pagala profumatamente. Ma Medardo Rosso era più
ambizioso delle sue qualità di artista che di quelle di mercante; appena
intascato il prezzo del falso Donatello si affrettò a rivelare il trucco all’acquirente,
il quale gli avrebbe battuto la mano sulla spalla e parlando anche lui in
meneghino, gli avrebbe fatto i suoi più sperticati complimenti, dichiarandosi
disposto a tenere per sé il falso e acquistare inoltre un’opera vera del
Maestro. A questo punto sorsero difficoltà insormontabili perché il cliente
voleva pagare un vero Rosso meno di un falso Donatello.
“Eh non, mon cher. Donatello non
mangia, non beve e non si veste più, per fortuna sua. Mì, mangio, bevo, compro
vestiti e vado in giro. Se mai, è di più che mi dovete pagare “.
Dopo l’incontro del ‘14 stemmo
quasi una diecina di anni senza vederci. Durante le peregrinazioni della guerra
egli ci raggiungeva di tanto in tanto con telegrammi di questo tenore: “Ciao. Stretta
di mano a te e tua donna”, oppure: “A te e tua donna et vostra creazione del
bene oggi et sempre”.
Nel Gennaio del 1923 Rosso giunse
a Roma. Montò ancora in una carrozzella e ci venne a cercare, fuori di Porta
San Giovanni, dove allora si abitava. Anche qui più di cento scalini da salire.
Questa volta era freddo, ma egli entrò nell’appartamento rosso, sudato e
asmatico come in quell’estate lontana. Si sedette presso la stufa, le gambe
larghe, il ventre traboccante dal sedile, un fazzoletto di seta bianca annodato
intorno al collo. Si interessò di tutte le novità della casa, della famiglia,
del lavoro, e, soprattuto, degli amici comuni; “La vera famiglia è quella degli
amici. Io lo dico sempre ai miei: badate che io ho un‘altra famiglia che conta
di più: è la famiglia degli amici, gli amici scelti da me. La famiglia legale
ti sa appena ricoverare se stai male; e se stai bene sbuca da tutte le parti
per venirti addosso a succhiarti. I membri della famiglia sono canaglie
legalizzate, sono lavativi....”.
L’amicizia era, secondo lui, di
cinque categorie, non ne specificò che una: quella per le donne non amanti. “Qui,
lo so, non si ammette questo genere di amicizia e se si vede un uomo in
carrozza con un’amica, tatatì tatatò, non si fa più finita...”.
Uscimmo insieme per andare a
cercare i coniugi Soffici e la Dolores Prezzolini. Ci recammo insieme alla
casina Valadier, al Pincio. S’era al tramonto: la città si stendeva grigia e
vaporosa sotto un cielo folgorante: “I tramonti di Roma non si vedono altrove»
notò Medardo; “l’aria è religiosa qui”. Poi, sempre attento a cogliere le
risoluzioni artistiche di ogni spettacolo e di ogni immagine: «Il cielo viene avanti,
il paesaggio va indietro”.
“E quello che cos’è? Un
calamaio?» Faceva finta di non riconoscere il monumento a Vittorio Emanuele.
E l’occasione non fu trascurata
per i soliti sfoghi contro i monumenti.
Soffici ricordò la loro
consuetudine di amicizia a Parigi; e Rosso colse l’occasione per riconoscere
alla capitale francese il merito grandissimo di essere l’unica città del mondo
dove gli artisti possono vedere messe in giusto valore le loro opere: anche per
riuscire a Londra e New York, bisogna esser passati per la borsa dì Parigi. “La
patria, la patria! La patria è quella che ti dà da mangiare. E lo strozzino è
l’unico veritiero benefattore dei bisognosi”.
Il cameriere si era sempre
mantenuto nelle vicinanze del nostro tavolo per seguire i brillanti paradossi
del nostro amico; e ora, mentre lo aiuta a infilarsi il pastrano esprime il suo
consenso: “Ma è così, mon ami; si sbaglia a dir male degli strozzini; essi sono
persone egregie, persone preziose. Soltanto loro ti danno conforto nel momento
del disagio. Divengono odiosi purtroppo il giorno che devi restituir loro quel
benedetto argent!”.
Mentre noi donne gli passiamo
davanti egli scruta attentamente il nostro portamento. “Tre tipi. Ciascuna con
un’eleganza sua propria. E una camminatura. Io capisco la gente a guardarla
camminare. Si pretende legger la mano. Ma il piede è molto più significativo.
Il piede fatica, il piede porta la persona, il piede risente l’emozione
dell’individuo. Guardate una persona che cammina in preda ad un’emozione. Non
vi accorgete come procede ineguale?”.
Al primo incontro con una
carrozzella s’interruppe di colpo, si congedò, ci abbracciò tutti, uomini e
donne, e seguitò a dirci addio, con grandi gesti come avvenisse un distacco
finale.
Ci rivedemmo invece pochi giorni
dopo in casa Spadini. Si traversava un periodo di nervosismo politico perché
c’era stata pochi giorni prima l’aggressione ad Amendola, e le discussioni
generali avevano preso, non mi ricordo a qual proposito, un tono vivace.
Medardo ascoltava passivo, in piedi, in mezzo alla stanza, decorativamente
bellissimo, proprio da ritratto, con un vestito tutto nero e uno dei suoi
prediletti e delicati fichus annodato pittorescamente intorno al collo. La
politica fu momentaneamente abbandonata per rilevare l’intenzione civettona di
quel fazzolettone cilestrino: “Non mi è mai piaciuto farmi notare e non mi sono
mai piaciuti gli uomini vanitosi: soltanto le donne hanno il diritto di
guardarsi molto allo specchio: tuttavia mi è sempre piaciuto curare la scelta e
l’esecuzione della mia roba; quando ero giovane mi si domandava chi era il mio
sarto perché i miei abiti erano tagliati particolarmente bene e avevano sempre
qualche invenzione; è che io aiutavo il mio tailleur e andavo nelle sartorie da
uomo e da donna perché gli artisti devono interessarsi di tutto... Sicuro, mes
amis, io penso che l’abito fa il monaco. Quante volte la fortuna di un
matrimonio è dovuta ad un abito ben tagliato. E ci si dimentica del povero
tailleur...»
Terminò la sua dimostrazione
sull’importanza del ben vestire raccontando di avere notato una volta a Parigi
una cocottina, in attività di lavoro, calzata molto male. La fermò: “Eh non, ma
chérie, ça ne marche pas. Porti delle scarpe troppo brutte per il tuo mestiere.
Vieni con me». La condusse in un’elegante calzoleria e le pagò un magnifico paio
di scarpe. “Maintenant ça va”.
E andò di certo, poiché a
distanza di breve tempo la rivide in carrozza, vestita lussuosamente, che
ostentava, fuori della sottana, un piedino finemente calzato.
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